“Non smetteremo di esplorare.
E alla fine di tutto il nostro andare ritorneremo
al punto di partenza per conoscerlo per la prima volta”
T.S.Eliot
Riferendosi alla Cronaca precedente, la I parte sulla Persuasione, in cui usavo l’immagine di Ulisse e delle Sirene, un’amica mi ha scritto chiedendomi se l’albero della barca a cui Ulisse si fa legare non sia una metafora della “Realtà”, un punto àncora a cui restare saldamente attaccati per non lasciarsi trascinare dai canti suadenti che ci porterebbero lontano, troppo distanti dal terreno su cui poggia il nostro io.
Scrive Elena: “… E’ quell’albero che accompagna e, insieme, sostiene Ulisse dalle sue stesse paure, spingendolo sempre più dentro di sé ad “aderire a sé stesso”. Solo allora potrà arrivare ad Itaca. Riflettendo mi chiedo e ti chiedo se esista una differenza psicologica tra quell’albero e Itaca e se tra loro ci fosse un nesso, come tra i soggetti e i luoghi…”.
E’ una buona domanda, mi dà l’occasione di portare avanti un discorso che mi sta a cuore e che fa da cornice a tutta una parte del mio lavoro: quella in cui, ascoltando e persuadendo, osservando e fornendo chiavi di lettura, co-costruisco insieme al paziente un pezzo di realtà, un contesto in cui esprimerci. Mi dà, inoltre, lo spunto per riflettere sulle metafore: potenti immagini che, più che descriverla, costruiscono la realtà.
Il termine stesso “albero della barca/nave” è già una metafora (come gamba-del-tavolo o piedi-della-montagna). Sarebbe un palo, quello della barca, ma dicendo albero diciamo molto di più. È stato un albero e “lo è ancora” nella misura in cui, metaforicamente, ha radici, si erge, punta verso il cielo, evoca e conduce a terra. E’ da quell’albero che si può scorgere la terra, è su di esso, l’albero maestro, che si fa conto per la tenuta della nave e la capacità di prendere il vento, sull’albero si issa la bandiera, ecc. Dicendo albero significhiamo qualcosa di diverso e di “di più” rispetto a ciò che un più prosaico “palo centrale e più alto della nave” comunicherebbe.
E, se non fossimo creature immerse nel linguaggio, questi sarebbero solo esercizi linguistici. In un’ottica letterale e riduzionistica, tutto questo significato non aggiunge e non toglie niente alla solidità “reale” della nave, se guardassimo ai luoghi o agli oggetti senza tener conto dei soggetti, una quantità di differenze e di sfumature, sparirebbero. Diventerebbero importanti la stagionatura del legno del palo, il modo in cui è ancorato al ponte, la sua altezza in rapporto alla lunghezza dell’imbarcazione e sparirebbero sullo sfondo il luogo da cui proviene e il pezzo di stoffa che rappresenta qualcosa posto sulla sua sommità… strane evocazioni di patria, radici, ritorno, vicino, lontano, estraneo, familiare…
Ma siamo soggetti, e probabilmente lo siamo proprio perché siamo immersi nel linguaggio: per un essere umano diventano importanti cose come “questo era un albero cresciuto nella mia terra”. E Ulisse si attacca a questo, a questo sta legato più che al palo fisico e, in questo senso, l’albero e Itaca, il posto a cui tornare e a cui veramente aderire (il luogo del soggetto), coincidono!
O, meglio, quasi coincidono perché solo le differenze possono assomigliarsi ed è nella differenza che si possono cogliere similitudini ed evocare affinità, distanze, sentimenti.
Se Ulisse è un soggetto – e a chi, di noi, non piace identificarsi con Ulisse – l’albero è una soglia sulla quale il soggetto sta proteso fra il nuovo, lo sconosciuto/perturbante del canto delle Sirene, e l’antico archetipico da cui è venuto e verso cui sta tornando. E cos’è una soglia se non, sempre, entrambe le cose: dentro e fuori, il rifugio e l’Aperto, prima-adesso e dopo.
I soggetti stanno sulla soglia ché se fossero troppo immersi si perderebbero nel mondo e se fossero troppo distaccati, si confonderebbero con gli angeli o con quelle strane mimiche dell’osservatore neutrale che si diventa, a volte, quando si finge di non provare niente o di “non essere di questo mondo”.
Lavoro con pazienti che hanno sintomi che rappresentano, con varie sfumature, l’uno o l’altro versante di questa dicotomia: troppo immersi o dolorosamente persi nel mondo quando l’ansia o il panico determinano la sofferenza, troppo attaccati al palo, avvinghiati ad una drammatizzazione della realtà o ad una rigida immagine di sé, quando il disturbo è ossessivo o narcisistico. Troppo persuasi dal mondo, dal canto delle sirene di ciò che cattura, preoccupa, spaventa o così attaccati al palo da non poter lasciare nemmeno momentaneamente un’idea di sé, uno schema, una visione del mondo, così spaventati dal poter essere persuasi da riempirsi di cera le orecchie, gli occhi, i sensi.
La cura, non solo quella psicoterapeutica ma anche quella filosofica e quella “letteraria”, passa dall’albero: una posizione psichica che ci permette di non essere letterali e, come Ulisse, stare un po’ dentro e un po’ fuori, non chiusi nella casa/rifugio fin troppo sicura delle nostre convinzioni, non preda delle Sirene, né spiaggiati né gettati nel mare ma in grado di navigare, anche in quello più aperto.
Restando nella metafora e usando ancora l’immagine dell’albero potremmo dire “ancorati a terra e protesi verso il cielo”… ma sto esagerando e l’amplificazione qui andrebbe in parte sul poetico e in parte su temi che riguardano l’etica della soglia (cosa vedo da qui e quanto devo agire o non agire? su cosa mi devo trattenere e dove mi devo spingere?) e l’estetica del percorso (cosa davvero mi piace e cosa mi hanno “fatto piacere”/di cosa sono o mi hanno persuaso?). Sono domande che Ulisse, nella sua Odissea, si è posto e su cui insistono altre metafore. Ma ci sarà tempo e spazio in altre cronache…