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Channel: Psicoterapia – Forme Vitali
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Cronaca 13 – Hypnos II Parte: favorire l’Inconscio

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Penso che il terapeuta non faccia altro che offrirti
l’occasione di pensare al tuo problema
in un’atmosfera favorevole”
M.H.Erickson

Parlavo nella Cronaca 12 della necessità di raggiungere l’inconscio e attivare la sua improvvisazione: la sua capacità di riconoscere nessi, progettare adattamenti e cambiamenti possibili, creare nuove strutture.

Questa attivazione dell’improvvisazione deve passare da una attenuazione della “prepotenza del conscio” che si può ottenere grazie al raggiungimento di uno stato di coscienza modificato, la Trance.

Ma cosa succede durante una Trance? Cosa cambia quando una persona guarda, sente e vede diversamente se stessa e i propri stati d’animo? Perché dovremmo avere fede (Bion) in questa fantasmatica capacità dell’inconscio di risanarsi?

Per rispondere a queste domande occorre partire da uno dei prodotti fondamentali dell’inconscio: il sintomo.

In genere sintomo è ciò con cui e per cui un paziente va dal medico o, nel nostro caso, dallo psicoterapeuta. In medicina il metodo dell’Esame Obiettivo invita il medico a tener presente innanzitutto i segni oggettivi e lasciare che siano questi a descrivere la condizione del paziente. In psicologia le cose funzionano in modo diverso. Per uno psicologo la descrizione che un paziente fa di se stesso deve diventare il punto di partenza.

L’attenzione a come una persona parla di sé favorisce il Rapport, la sintonizzazione con il paziente, e, soprattutto, permette al terapeuta di cogliere la metafora con cui il paziente si presenta. Ogni sintomo è in qualche modo una metafora: quando una persona ne parla per descriverlo parte sempre da un “E’ come se…”. I vari “E’ come se mi mancasse la terra sotto i piedi… è come se l’ansia mi paralizzasse… come se non dipendesse da me… come se non potessi fare diversamente… ecc.” sono tutti modi per descrivere l’indescrivibile, per comunicare a qualcuno come ci si sente quando un sintomo (in greco Sympiptein significa urtarsi, scontrarsi) ci assale costringendoci a diventarne, giocoforza, portatori.

Insomma, la persona porta in seduta ed è portata in seduta da un sintomo: qualcosa da cui si vuole liberare, qualcosa che la disturba e di cui farebbe volentieri a meno ma di cui non riesce a sbarazzarsi. E mentre nell’approccio medico i sintomi psichici e psichiatrici sono qualcosa su cui intervenire con il farmaco giusto: un ansiolitico per l’ansia, antidepressivi e stabilizzatori dell’umore per la depressione e il disturbo bipolare, ecc.; in psicoterapia il sintomo è qualcosa da cui partire: un biglietto da visita con cui il paziente viene a parlare di sé e con cui il suo inconscio sta cominciando a guarire.

Infatti: “Un sistema può cominciare ad adattarsi originando un comportamento sintomatico. Questo comportamento è paragonabile a un prurito, a un faro di luce o a un suono di tromba perché ottiene l’attenzione di qualche persona. Famiglia, amici, vicini e terapeuti, per esempio, possono tentare di essere utili. I loro tentativi (quelli del paziente ed eventualmente quelli di chi tenta di aiutarlo) organizzeranno il problema nell’ambito di un processo di autocorrezione oppure come fuga e oscillazione.” (B.P.Keeney L’estetica del Cambiamento) (Corsivi fra parentesi miei).

L’Autocorrezione è lo sforzo, in genere conscio, che il paziente fa per guarire. E’ ciò che gli fa dire o fa dire a chi gli vuole bene “Qui bisogna fare qualcosa, non si può andare avanti così”.

Il processo di Oscillazione e Fuga è invece parte integrante del sintomo ed è ciò che ha veramente portato in terapia la persona.

Le oscillazioni sono dei movimenti attorno ad un punto di equilibrio: una persona può andare avanti per molto tempo a provare, ad esempio, un’ansia tollerabile e finché sente di avere un certo grado di controllo su di essa, finché riesce a placarla ricorrendo ad un qualche metodo personale che funziona, si mantiene dentro ad uno schema oscillatorio che giudica accettabile. Ma quando le oscillazioni diventano troppo ampie il sistema comincia a scricchiolare e c’è una sorta di perdita di controllo.

Si verificano delle escalation: dei momenti in cui il sistema va in fuga nel senso che le oscillazioni, non più controllabili, sfociano in vere e proprie crisi in cui qualcosa di esterno deve intervenire per porre fine allo squilibrio.

Un esempio di Fuga sono gli Attacchi di Panico: sembrano avvenire all’improvviso ed essere da subito incontrollabili; in verità, ad una analisi più attenta, quando si riesce a riflettere con la persona non solo sulla crisi parossistica in cui ogni difesa sembra fallire, ma anche sui giorni e a volte sui mesi che l’hanno preceduta, ci si accorge che le oscillazioni sono aumentate o cambiate. Fino a prima “Ero riuscito a controllarle con uno sforzo di volontà”.

Questo sforzo di volontà è, molto spesso, ciò che ha dato il colpo di grazia al sistema. Succede infatti che: “L’intensità di un episodio ansioso aumenta se la vittima tenta di arrestarlo. La lotta contro il panico ne provoca l’escalation finché il cliente vi rinuncia e si dichiara inerme, dopo di che l’ansia può essere alleviata.” (B.P.Keeney L’estetica del Cambiamento).

La volontà di far sparire o di controllare il sintomo funziona un po’ come l’ingiunzione “Non pensare a un elefante rosso!”: per non pensarlo devo cominciare a pensarlo e, pensandolo, lo tengo in esistenza.

Il sintomo è la punta dell’iceberg; sotto, non analizzati e trascurati, ci sono i pensieri, gli sforzi, le resistenze e le sensazioni che, nel tentativo di allontanarlo, lo rinforzano e lo tengono al suo posto.

Tutto questo lavorio interno è ciò che, fino ad un certo punto, ha mantenuto lo schema oscillatorio dentro a dei margini di tollerabilità. Un’ansia tollerabile, una tristezza tollerabile, una fatica tollerabile… sono oscillazioni a cui siamo abituati, ma chi ha iniziato una terapia sa che c’è stato un momento in cui qualcosa all’interno del sistema ha stabilito, a volte con un sintomo, a volte con una decisione o con una “presa di consapevolezza”, che l’equilibrio andava rotto nella direzione di un equilibrio diverso che fosse “meno malato/più sano”.

Questo cambiamento, questo passaggio da uno stato all’altro, è già condensato dentro al sintomo e l’intera psiche del paziente (e spesso anche di chi gli sta vicino) ha congiurato per metterlo lì.

Non mi è mai capitato di seguire un paziente che soffrisse di attacchi di panico che non fosse anche uno “spericolato”: ho immancabilmente trovato, cercando insieme a loro, spinte che miravano a rompere lo status quo, lasciarsi alle spalle una gabbia, allargare i propri confini. Ognuna di queste tensioni era già presente nel comportamento sintomatico.

E, come dice ancora Keeney: “Il punto importante, a volte lasciato in ombra, è che la comunicazione sintomatica indica sempre la direzione da seguire per ottenere il cambiamento terapeutico. In un certo senso il terapeuta si limita soltanto a creare un contesto nel quale il cliente possa utilizzare le proprie risorse per conseguire il cambiamento o i cambiamenti necessari.”.

Quando la mente conscia, con i suoi disperati tentativi di scappare via dal sintomo, viene finalmente acquietata, si crea l’atmosfera favorevole di cui parla Erickson: la condizione in cui la persona può pensare il sintomo, stare con il problema e abbandonare quelle “soluzioni” che contribuiscono a mantenerlo. E’ in questa atmosfera che avvengono quei cambiamenti che possono veramente porre fine al comportamento sintomatico. E’ come se, proprio come nella storia di Manzanita wood, di colpo la persona potesse compiere un salto e vedere le cose in un modo diverso.

Il cambiamento non è un cambiamento del modo di fare, non è una nuova strategia per affrontare diversamente il problema.

E’ piuttosto una trasformazione interna: qualcosa cambia in profondità e, a volte di colpo, altre volte lentamente ma inesorabilmente, l’attore del cambiamento/il paziente diventa un altro.

E’ qualcosa che è già successo nella vita di ognuno di noi: quando abbiamo imparato a camminare, ad andare in bici, a guidare un’automobile. E’ qualcosa che semplicemente avviene e c’è un momento in cui sentiamo che ora siamo in grado di farlo.

Se si osserva un bambino in uno di questi momenti di cambiamento si può vedere un’espressione di pura gioia sul suo volto, un’esultanza per l’ottenimento di un nuovo stato di coscienza e per la consapevolezza di essere andato oltre. Qualcosa è cambiato dentro. Se si osserva un adulto si vede… la stessa cosa ma mascherata da una serie di considerazioni del conscio!

C’è una storia cinese citata da Alan Watts che parla, nel modo in cui ne parlano gli orientali, del lavoro che occorre fare per lasciare che l’inconscio abbia spazio per attivare questa improvvisazione: “Ch’ing, il falegname capo, stava intagliando un appoggio per appendere strumenti musicali. Quand’ebbe finito, l’opera apparve a coloro che la videro come qualcosa con il tocco di un’esecuzione soprannaturale. Allora il principe di Lu gli fece una domanda: “Cosa c’è di misterioso nella tua arte?”. “Nessun mistero, altezza”, rispose Ch’ing, “Eppure c’è qualcosa. Quando sto per mettermi a fare un porta-strumenti, evito ogni diminuzione del mio potere vitale. Innanzitutto riduco la mia mente in uno stato di quiete assoluta. Tre giorni in queste condizioni e mi dimentico di ogni ricompensa che ne potrò ricavare. Cinque giorni e mi dimentico di ogni fama da raggiungere. Sette giorni e divento inconscio dei miei quattro arti e della mia struttura fisica. Allora, senza alcun pensiero della Corte nella mia mente, la mia abilità diviene concentrata e tutti gli elementi esterni di disturbo se ne sono andati. Io entro in una foresta di montagna. Cerco un albero adatto. Esso contiene la forma richiesta, che viene poi elaborata. Io vedo il porta-strumenti con l’occhio della mente e allora mi siedo al lavoro. In altro modo non vi è nulla. Io metto la mia capacità naturale in relazione con quella del legno. Quello che sembrava fosse dovuto a un’esecuzione soprannaturale del mio lavoro è dovuto soltanto a questo.”.

 


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