“… è difficile spiegare
è difficile capire se non hai capito già”
F. Guccini
Non si può spiegare una barzelletta. Se lo spirito di una battuta non è colto da chi ascolta, ogni chiarimento, ogni tentativo di portarlo con il ragionamento al succo della faccenda non otterrà il risultato. Può darsi che capisca ma la risata sarà una sorta di forzatura un “ah… ecco, era questo che intendevi”, un aborto, insomma.
Il motto di spirito è “di spirito” proprio perché dovrebbe muovere una funzione laterale: qualcosa che assomiglia a ciò che ci permette di godere di una poesia o di un’opera d’arte, più intuizione che raziocinio, più contemplazione e ricettività che analisi e deduzione.
Chi racconta deve essere bravo a portare chi ascolta su una soglia: una posizione nella quale la tensione della storia possa sciogliersi in una comprensione immediata che permetta il riconoscimento di un nesso imprevisto, nel caso della battuta, o di una diversa configurazione, una gestalt che ci lasci ammirati, nel caso dell’arte.
Si scoppia a ridere o si esclama “che bello” quando si ri-conosce qualcosa, come se si ritrovasse dentro di sé un oggetto che era già lì e che, quando viene visto, genera un moto. Qualcosa si muove nella psiche e questo movimento è fonte di piacere o di consapevolezza o di stupore.
Non è stato spiegato ma messo lì! Qualcuno lo vede altri no e credo che il tentativo di spiegare ai secondi ciò che per i primi è auto-evidente sia ciò che ha portato Guccini a scrivere le strofe che cito nell’incipit.
Anche in psicoterapia spesso capita che le spiegazioni siano più un intralcio che una risorsa. I pazienti arrivano con il loro carico di deduzioni: il perché di un sintomo, i motivi di una separazione, il racconto di come mai è andata a finire così, di come avrebbe dovuto essere… e spesso capita “all’esperto” di cadere nella tentazione di dare le proprie di spiegazioni, più dotte, articolate e ricche di citazioni autorevoli. Non funziona quasi mai o funziona per un po’ e, dopo qualche tempo, il sintomo ritorna magari solo leggermente cambiato ma pronto a ribadire la propria forza e la propria impermeabilità alle spiegazioni.
Il dolore non è freudiano né junghiano o lacaniano. Sembra immune anche alle teorie più complesse e se spiego ad un paziente che la sua depressione deriva dal cattivo accudimento cui i suoi genitori l’hanno sottoposto o che le sue difficoltà di relazione sono il risultato di una coazione a ripetere che fonda le proprie radici in un Edipo irrisolto… anche se glielo spiego proprio per bene e lo faccio diventare, lui stesso, un membro di qualche società psicoanalitica, non è detto, non è detto che capisca la barzelletta e qualcosa si trasformi, davvero, in lui.
Vedete (Guccini dice “Vedi cara”) la psiche è innamorata delle soglie: c’è qualcosa in noi esseri umani che ci rende particolarmente sensibili a quei luoghi e a quei momenti in cui le cose si saturano e diventano più intense. Psiche ne è così affascinata che le ricerca anche se procurano dolore: siccome sulla soglia tutto diventa più vivido, l’io (la persona, l’eroe, il personaggio) si ri-propone, torna lì, cerca il momento in cui ha provato quella particolare intensità. Non c’è bambino che chieda un trattato sulle favole o un saggio su Cappuccetto Rosso. Non ricerchiamo la spiegazione , vogliamo la storia e, nella storia, quei momenti in cui la tensione è al massimo.
Non tenere presente questo aspetto della psiche significa ignorare la sua capacità di patologizzare, di rendere, cioè, un esperienza piena di pathos: di passione, di emozione e di… anima!
Se si riconosce, invece, questa follia di psiche, questo bisogno di girare in tondo alla ricerca di momenti significativi e questo rifiuto della spiegazione a favore del mito, si scorge un senso diverso, una qualità profonda che caratterizza la nostra esistenza.
E’ più facile rendere l’idea usando un mito. Prendete Orfeo che, grazie alle sue capacità e al suo essere ben visto dagli dei, ottiene il permesso di scendere nell’Ade per riprendersi Euridice, la sua novella sposa che, morsa da un serpente, è sprofondata negli inferi. Scende, accompagnato da Hermes e gli stessi mostri del mondo infero sono incantati dalla sua musica; trova Euridice e comincia l’ascesa, memore dell’avvertimento degli dei che gli intimano di non voltarsi se non vuole perdere la sua donna per sempre e… inspiegabilmente, sulla soglia… si volta!
Si volta (maledizione!) e perde Euridice. E’ inspiegabile ed è il motivo dell’intensità della storia e, su questo gesto (questo atto mancato, agito inconscio di aggressività passiva, debolezza in ombra che si manifesta e… spiegazioni varie) l’immaginazione può spaziare. Su questo momento si sono composte musiche e poesie (“Orfeo e Euridice” di Gluck e “I Sonetti a Orfeo” di Rilke) dipinti quadri e scritti saggi (il bellissimo Orfeo di Hillman) eppure non è mai avvenuto.
O, meglio, come ogni mito, non è mai avvenuto ma accade continuamente.
E, fortunatamente, rimane inspiegabile e raccontabile. Quando un paziente comprende che non è “il solo” e che prima di lui/lei Orfeo e altri uomini hanno commesso un errore imperdonabile e irreversibile e prima di lei/lui altri sono stati inavvertitamente lasciati negli inferi, quando si rende conto che il luogo di questi eventi non è un posto nell’antichità ma una parte della psiche di tutti… smette, su quel punto, di cercare spiegazioni.
E accetta una soglia che diventa sua! E’ un bel momento: il dolore nevrotico si trasforma in una sofferenza sensata che prende il posto della “lagna” che caratterizza la ruminazione e che rende il pensiero una fatica di Sisifo o una pena alla Damocle e certi deliri diminuiscono di intensità e diventano meno insistenti.
E’ come se, abbandonando il bisogno di spiegare tutto e accettando che per certi tratti e con certi sfondi finiremo sempre per provare quella determinata intensità, le cose si armonizzassero e la psiche si acquietasse ma senza annacquarsi, senza perdere tensione. Un bel momento, pieno di significato.