“Sembra che i grandi insegnanti e terapeuti
evitino ogni tentativo diretto di influire sulle
azioni degli altri e cerchino invece di instaurare
le situazioni e i contesti in cui certi cambiamenti
(di solito specificati in modo imperfetto) possano avvenire”
G.Bateson
Giorni fa ho trovato, su un blog che frequento, un passo tratto dalle conferenze alla Tavistock Clinic in cui Jung, descrivendo la posizione che un analista dovrebbe tenere nella terapia con un paziente, dice: “Quando ho in analisi un individuo devo stare estremamente attento a non travolgerlo con le mie convinzioni o con la mia personalità, poiché egli deve combattere la sua battaglia solitaria nella vita e deve poter avere fiducia nelle proprie armi, siano anche rozze e incomplete e nella sua meta, anche se fosse molto lontana dalla perfezione. Se gli dico ‘questo non va bene e bisognerebbe migliorare’, lo privo del suo coraggio. Deve arare il suo campo con un aratro che forse non è del tutto adeguato; il mio potrebbe essere migliore del suo, ma a che gli servirebbe? Lui non ha il mio aratro, ce l’ho io, e non può chiedermelo in prestito. Deve usare i propri utensili per quanto incompleti, e deve lavorare con le capacità che ha ereditato, per quanto carenti.”
Mi sembra una buona metafora: mette l’accento su quella che, ai tempi (era il 1935), si chiamava neutralità del terapeuta e parla di lavoro che deve essere svolto e di mezzi con cui compierlo e non a caso fa riferimento all’aratro che, a sua volta, evoca la terra/coscienza che ha bisogno di essere smossa per dare dei frutti.
E’ improbabile che uno come Jung usasse metafore a caso. Il suo metodo di interpretazione faceva largo uso dell’amplificazione: un modo di procedere in cui, partendo da un’immagine o da una suggestione fornita dall’analizzato, l’analista risale a concetti universali validi in varie culture e in diversi momenti storici. Insomma quando Jung diceva “aratro”intendeva qualcosa di molto preciso e, al contempo, si riferiva ad un concetto che rimandava ad una quantità di altri e che era profondamente significativo per la psiche di… tutti.
Se accettiamo questo approccio l’aratro smette di essere un oggetto e diventa una relazione e un simbolo. Dà il senso di un’opera e di un’operosità, di un intervento su qualcosa di vivo che ha bisogno di essere aperto e di venire alla luce e di un compito che va a toccare forze che agiscono da sempre e che, una volta messe in moto, attuano e portano a termine processi che daranno risultati.
L’aratro era in origine poco più di un bastone con cui il terreno veniva dissodato. Questo bastone si è evoluto insieme all’uomo e il suo uso ha coinvolto animali che come servi/alleati hanno contribuito alle fatiche e al raggiungimento. I solchi rappresentano l’ordine e l’intervento sulla materia e, nella psiche, la cultura e l’egemonia della coscienza.
Credo che Efesto, il dio del fuoco e della metallurgia, l’unico fra gli dei dell’Olimpo a svolgere un lavoro e il più terreno (meno aereo) fra di loro, sia a suo agio in questa amplificazione che tratta dei mezzi che ciascuno può e dovrebbe usare per coltivare se stesso.
Un po’ come l’individuo di cui parla Jung, Efesto parte svantaggiato. E’ zoppo dalla nascita, non è bello, viene rifiutato dalla madre (Era) e dal padre (Zeus) e i suoi doni non sembrano così magici. È un fabbro provetto ma assomiglia più ad un operaio che ad un dio: lavora nelle sue fucine, i vulcani lontani dall’Olimpo; forgia strumenti poderosi e gioielli bellissimi; gli altri dei lo guardano un po’ come un parente povero e, anche se riesce a sposare Afrodite e ad avere una breve storia con Athena, le sue relazioni con queste dee che rappresentano aspetti diversi e profondi del femminile, sono di breve durata e di poca soddisfazione.
Insomma è perfetto per rappresentare qualcuno che i mezzi se li deve costruire e che l’aratro non ce l’ha in dotazione ma che se ne fabbrica uno e… se lo costruisce bene.
L’individuo di cui parla Jung deve combattere la sua battaglia solitaria nella vita e, così come Efesto non è stato aiutato dai genitori, verrà lasciato un po’ solo dal terapeuta che non gli fornisce i mezzi ma lascia che lui con i propri si dedichi all’opera.
In questa solitudine è fortunato se non viene privato del proprio coraggio, se non viene, cioè, costretto ad impugnare le convinzioni e la visione della realtà di qualcun altro!
Non sarebbero i suoi mezzi. Si ritroverebbe ad usare stampelle che non correggono la sua andatura e a maneggiare utensili che non accrescono il suo potere e non favoriscono l’apprendimento.
E’ curioso (e incredibile!) che i greci immaginassero che la sposa di Efesto fosse Carite, la Grazia per eccellenza. Avvicinando a questo dio l’influenza di un’entità dedita al bello, alla gioia e alla forza della natura coglievano, credo, un aspetto che è lo stesso che coglie Jung quando raccomanda all’analista il rispetto del paziente. Sottolineavano la delicatezza della psiche: quella dote presente nella terra in cui affonda l’aratro e nella mente, anche in quella del più solitario degli dei e del più selvatico degli uomini. Questa cedevolezza rende ricettivo il terreno e possibile il lavoro. L’opera è compiuta dal soggetto e il rispetto della soggettività fa la differenza.
Con il lavoro i mezzi si affinano! Al terapeuta non resta che “… instaurare le situazioni e i contesti in cui certi cambiamenti possano avvenire.”