“Verità: l’invenzione di un bugiardo”
Heinz von Foerster
La frase di cui sopra è di uno dei padri della Cibernetica di Secondo Livello quella che invece di studiare i sistemi osservati si occupa dei sistemi che osservano e, se volessi perdere nelle prime righe la maggior parte dei lettori, ci proverei ad avventurarmi in uno “spiegone” su quanto i suoi studi abbiano influito su alcuni degli sviluppi più recenti della psicoterapia.
Ma questo post parte da domande che due diversi sistemi che osservano (due lettori di Forme Vitali) mi hanno rivolto dopo aver riflettuto su una bacheca di qualche tempo fa: Al di là del giudizio.
Entrambi chiedono come si possa non giudicare ed entrambi mettono in dubbio che si riesca a stare in una sorta di astensione in cui le cose e le persone smettono di essere viste come belle o brutte, buone o cattive, ecc. Uno di loro che è anche un mio paziente riferisce di un sintomo che, quando prova a non giudicare, lo affligge: “smetto di interessarmi, divento apatico, un po’ morto”. E’ a partire da questa sua osservazione che mi è venuta in mente la frase di von Foerster e l’amplificazione che segue.
Raccontava Platone di quanto, per Socrate, il luogo comune secondo cui Eros fosse il bellissimo dio dell’amore, il potente demone temuto da uomini e déi per la capacità di far impazzire chiunque colpisse con i suoi dardi, non fosse che una storia: un modo di descrivere qualcosa che, in realtà, sfugge. Diceva che, più probabilmente, è vera un’altra descrizione che lo vede come un poveretto sempre in giro a cercare ciò che gli manca: Eros, figlio di Poros (l’Ingegno) e di Penia (la Miseria); uno che ha ereditato dalla madre la continua fame per ciò di cui ha bisogno e, dal padre, l’arte di ingegnarsi, di inventare di tutto pur di conquistare ciò che ardentemente desidera. Eros che quasi non vede altro che l’obiettivo del suo cercare e che è preda di un giudizio che gli fa vedere bello e giusto e desiderabile ciò che insegue e insulso, pallido e banale ciò che non è nelle sue mire.
Ma è vivo e ardente! Giovane e sicuro e arrapato e pronto a inventarsi ogni verità ché così si fa quando bisogna conquistare chi si ama, quando ci si ingegna/impegna per raggiungere! Sempre sotto pressione e sempre in moto e, se gli si dicesse di non giudicare… non capirebbe nemmeno. “Come è l’acqua più avanti?” chiede un vecchio tonno al giovane pesce che gli viene incontro; lui, distratto, non risponde e, dopo un po’, rivolgendosi al compagno di viaggio che procede insieme a lui, domanda: “Quale acqua?”. La citava Wallace, questa, e descrive bene l’impeto e l’apparente non giudizio di chi tira dritto: l’indifferenza per il contesto e la non-sospensione di un tipo erotico e innamorato che non ha tempo per i dettagli.
L’esatto contrario dell’atteggiamento che agli inizi del secolo scorso veniva suggerito agli psicoterapeuti a cui era chiesto di essere come morti: senza espressioni e valutazioni, impassibili per lasciare che il paziente non trovasse appigli e che si accorgesse dei propri, di giudizi, o di quelli appresi e del condizionamento che esercitavano sulla sua vita.
Eros e Thanatos: la pulsione di vita che, muovendosi verso ciò che piace, desidera e muove, o quella di morte che “mineralizza” e cerca una quiete senza sbattimenti. Entrambe sono all’opera in noi e le emozioni, i desideri e il pensiero sono soggetti alla forza che queste pulsioni esercitano. Siamo contemporaneamente spinti e trattenuti, attivati o spenti, motivati o dissuasi.
Questa alternanza modella la nostra vita e il prevalere di una pulsione colora in un senso, determina una collocazione su un continuum ai cui estremi ci sono due condizioni incompatibili con la vita: la totale immersione nel desiderio, da una parte; la completa estinzione di ogni spinta, dall’altra.
E’ facile che, se si sta troppo a lungo senza giudicare, se si cerca di astenersi dal prendere posizione e si prova a chiamarsi fuori dal gioco delle opinioni, ci si imbatta, come il mio paziente, in un sintomo che ci avverte di uno scompenso: troppa distanza favorisce Thanatos e, con esso, quel senso di vuoto e di apatia che possono accompagnarlo.
Ma se non c’è alcuna critica del giudizio, se il sistema che osserva non si chiede mai nulla sui parametri attraverso i quali misura la realtà, il rischio diventa quello di procedere per certezze e di muoversi in una specie di fuga in avanti verso obiettivi “irrinunciabili” da cui non si riesce a staccare il desiderio. I sintomi in questo caso sono tutti compresi nell’insieme caratterizzato dall’avidità: gelosia, fame compulsiva, ossessione (per citarne alcuni).
E, naturalmente, la soluzione non è quella di giudicare solo un po’! Non si può dimezzare il giudizio e sospenderlo non significa tenerlo via per un po’. Non è bambino che può essere distratto fino al prossimo capriccio, né un cane che se gli si dà un osso…
L’epoché, quel gesto teorizzato dagli antichi greci e tradotto, correttamente, con sospensione del giudizio è un gesto, appunto! Potrei dire una postura o, visto che ci siamo, visto che è questa l’acqua in cui siamo immersi (ammesso che non sia solo in questo momento e che qualcuno mi abbia seguito), una forma vitale. Epoché è un modo di mettersi, un uso dell’attenzione, una predilezione per la differenza!
La parola chiave nella frase dell’incipit non è Verità e nemmeno Bugiardo ma… Invenzione.
Se so che sto inventando, riesco anche a tener presente che ogni verità contiene invenzione perché implica un modo di guardare, un’ottica sulla vita, una presa di posizione.
Un’Epoca (termine che deriva da epoché) è un’invenzione: un arbitrio con il quale si decide che un evento fondamentale mette fine ad un periodo e dà inizio ad un altro. E’ una messa tra parentesi, un gesto che mi permette di guardare ad un lasso di tempo come se da lì in poi le cose non fossero più le stesse.
L’invenzione sta nel cambiamento di punto di vista del sistema che osserva. Non sono i tempi che sono cambiati ma il nostro modo di osservare. Può darsi che un certo evento ci abbia quasi costretto ad osservarlo ma è il nostro sguardo che muta.
“Com’è l’acqua più avanti?” è una domanda che implica che io che ci sto andando chiedo a te, che ci sei già stato, come ti sei trovato, cosa hai osservato mentre eri là!
Provate ad applicarlo a una relazione e, poi, soffermatevi sull’effetto che la domanda ha su di voi.
E’ un invito a riflettere. Un gesto che in terapia si compie ogni volta che si chiede ad un paziente: “Ma tu come stavi? Chi eri in quel momento? Raccontami, raccontati…”
Inventerà! Darà, oggi, una versione nuova di ciò che è stato e lo farà aggiungendo… ciò che sta essendo. E non c’è niente di male perché non stiamo cercando una verità ma una storia che possa essere raccontata, qualcosa che possa contenere le nostre proiezioni/invenzioni. I traumi sono duri fatti che non si riesce a dire.
Lo so che è complesso ma è così che stanno le cose al di qua del giudizio.
O ce le stiamo inventando?