“Saremmo veramente poveri se fossimo solamente sani”
D.Winnicott
“Forme Vitali e… ciò in cui sono immerse” è un mio post di tre anni fa. Rileggendolo mi sono accorto di quanto per me l’idea di Forma Vitale sia un concetto in continua evoluzione.
Allora scrivevo: “Le forme vitali sono modi in cui possiamo modulare la nostra vitalità, stati di attivazione del corpo-mente, stili di nuoto, di cammino, di eloquio, di sintonizzazione con l’altro… modi in cui determino il mio avvicinarmi o tenermi a debita distanza, andarmene, fingere di essere lì, stare e non stare… centinaia di possibili combinazioni del mio sentire, agire, interagire… Il senso di vitalità permea tutta la nostra esperienza: possiamo svolgere un’azione o una serie di azioni in molti “modi soggettivi” diversi: possiamo sentirci fiacchi, pieni di forza, forzati, reticenti, distaccati… mentre compiamo ‘lo stesso gesto’ ”.
Questi modi di essere riverberano nell’ambiente e lo influenzano determinando, in parte, l’habitat che, a sua volta, ci influenza.
C’è, insomma, una ricorsività: un giro di feed-back fra l’individuo e il mondo in cui non si sa chi viene prima, chi compie il primo passo nella direzione del cambiamento, chi “scaglia la prima pietra”.
Quando Daniel Stern parlava di forme vitali si riferiva ad uno specifico modo di porsi con il corpo e nel corpo, raccontava di intensità dei gesti e di percezione soggettiva: quanta forza sento che sto mettendo in questa azione, in questo scambio con il mondo. Diceva, nel suo libro, che l’uso di questo modo di osservare l’uomo poteva aiutare il terapeuta a cogliere l’aspetto energetico, la valenza soggettiva dell’azione che, altrimenti, per chi guarda dal di fuori, può andare perduta.
Con me (e immagino con molti altri terapeuti) sfondava una porta aperta: spesso io ascolto più l’intensità con cui una cosa viene detta che il contenuto del messaggio; sono interessato all’emozione e all’affetto, al tono e al volume, alla densità con cui la comunicazione permea la relazione. Poi viene il significato semantico, ciò che le parole vorrebbero dire e che i gesti, la postura, il timbro, il ritmo, l’enfasi hanno veicolato e ampiamente/sinteticamente espresso.
Ci sono volte in cui chiedo al paziente di ripetere l’idea (dico: spiegamelo meglio) perché ero così attento al “mimo” che devo riascoltare le parole e collegarle… alla forma vitale che le ha espresse.
Le forme vitali ci aiutano ad esprimere una nostra versione: un nostro particolare modo di sopravvivere in un mondo di resistenze.
Basta osservare l’impegno che un bambino che non sa ancora parlare mette nel tentativo di “far passare” un desiderio, lo sforzo con cui si ingegna per protendersi o per ottenere, per accorgersi di come la resistenza sia la regola e di quanto la relazione sia, fin dal principio, un modo per allearsi contro di essa: ho fame aiutami a farla passare, avvicinami per favore quell’oggetto, avvicinati tu che sei, in questo momento, il mio oggetto preferito, contienimi, aiutami, fammi contento… tutte cose che i bambini vogliono e che gli adulti… anche!
Le resistenze limitano, minacciano, ostacolano. Le forme vitali (dal muoversi verso al ritrarsi, dall’abbraccio al contorcimento, dal saluto all’aggressione) sono modi per superarle, prevenirle, posticiparle, negarle, ecc.
Solo se si adotta un’ottica stupidamente consumistica si può pensare che il mondo sia pronto a soddisfare i nostri desideri senza opporre resistenza. In un mondo così, una sorta di paradiso terrestre, non occorrerebbe porre enfasi, ogni desiderio verrebbe esaudito senza bisogno di impegnarsi, senza spreco di vitalità. Sarebbe, insomma, un mondo di morti, un luogo in cui la vitalità e le sue forme diventerebbero superflue. Un non-posto che NON esiste e che viene proposto solo nelle pubblicità o in uno stile di pensiero che suggerisce che il desiderio possa essere soddisfatto acquisendo, comprando, accumulando!
Il guaio con i non-posti (miraggi, paradisi, isole felici, principi azzurri) è che, non esistendo, non sono raggiungibili e, non essendolo, si prestano facilmente all’idealizzazione (la prima caratteristica di un ideale è proprio l’irraggiungibilità).
Quando idealizziamo sottoponiamo noi e il mondo ad una scissione: da una parte il paradiso, dall’altra la valle di lacrime; di là l’uomo sazio e felice, di qua l’affamato-insoddisfatto. La convinzione dominante in questa visione del mondo è che solo nel raggiungimento ci completeremo, solo in un aldilà saremo sani e salvi.
E non sto affatto parlando (solo) di religione. La versione laica di questo credo è ben descritta da Franzen quando, parlando di relazione e “soddisfazione”, dice: “I miei esempi preferiti comprendono l’industria dei matrimoni, le pubblicità televisive dove appaiono piccoli, adorabili, bambini o si passa l’idea di un’automobile come regalo di Natale, e l’equiparazione, particolarmente grottesca, fra diamanti e devozione eterna. Il messaggio, in ogni caso, è che se ami qualcuno devi comprare qualcosa e che se non aggiungi un oggetto, se non completi con qualcosa, non ci sarà felicità.” (corsivi miei).
Ma ha ragione il Winnicott dell’incipit: solo sani equivale a poveri!
Il “gesto” con cui poniamo l’ideale da una parte e il reale dall’altra è il contrario di una Forma Vitale perché invece di promuovere la vitalità la rimanda in un futuro impossibile e incorporeo.
Fra i tanti depressi che ho seguito in terapia non ne ho mai conosciuto uno che non considerasse che gli mancava qualcosa, che non pensasse che se solo avesse avuto… si sarebbe sentito meglio.
E ogni volta che ne ho visto qualcuno migliorare ciò che ho visto cambiare in lui era proprio questa convinzione. Succede, a volte quasi di colpo, magari dopo un anno di stagnazione, che una resistenza viene accettata e una passione si riattiva.
Mi accorgo che qualcosa cambia nella voce, nella postura e nello sguardo e “la salute” che se ne stava nascosta da qualche parte ricompare in qualcosa a cui la persona si appassiona e che si mette o ri-mette a fare. E, naturalmente, non è che, da qual momento in poi il paziente è guarito: ha solo indossato nuovamente una forma, ha smesso di aspettare e ha inforcato una bicicletta, messo un paio di scarpe preso in mano una matita, un libro… ha ripreso a soffrire per qualcosa. In altre parole ha accettato una resistenza: è, nel suo modo, diventato consapevole dell’impossibilità di essere solo sano (o solo malato); ha smesso un idealizzazione per farsi carico di una passione.
Ricordate Freud che diceva che una persona è sana quando è in grado di lavorare e quando è in grado di amare? Ecco: una passione è un misto di lavoro e amore. E’ anche, per dirla ancora con Franzen “una cosa da sfigati”: qualcosa da cui decidiamo di partire zoppicando perché se mi appassiono non sono già bravo! Sono piuttosto uno che accetta di avere un sacco di strada da percorrere e che, tuttavia, comincia a goderne da adesso partendo dalla vitalità che ha.