Chi non danza non sa cosa succede.
Proverbio Gnostico
…il cucchiaio non esiste…
Dal film “Matrix”
Chi ha letto le due Cronache precedenti sa quanto, in base a questo approccio terapeutico, sia importante la domanda psicologica: “Dove sei?”.
Infatti abbiamo visto che, anche se è vero che il labirinto non ha confini e che “per quanto lontano tu possa andare mai raggiungerai i confini dell’anima”, è importante interrogarci sul punto di vista che stiamo adottando e su quanto, in base a come guardiamo, le cose nella nostra psiche cambiano e assumono diverse coloriture.
In questo senso l’impossibilità di raggiungerne i confini non va intesa tanto nel senso dell’estensione, come se il labirinto fosse troppo vasto, quanto nel senso dell’inafferrabilità: il labirinto non si lascia circoscrivere se non momentaneamente; è per sua natura mutevole perché risente dell’occhio di chi guarda e, siccome non appena credo di averlo afferrato, il mio sguardo cambia, ecco che, di nuovo, si sottrae.
Eppure questa continua mutevolezza non vanifica affatto l’efficacia della domanda “Dove sei?”, anzi, siccome è proprio grazie alla “instabilità” e all’estrema plasticità della psiche che noi possiamo di volta in volta cambiare e adattarci al mondo o adattare il mondo a noi, l’interrogarci sulla nostra posizione rispetto a qualcosa o a qualcuno, non è che un modo per osservare questo continuo lavoro che determina e costruisce momento per momento il nostro mondo soggettivo.
Potremmo dire che, dal punto di vista soggettivo, a seconda del tipo di presa che, più o meno consapevolmente, esercitiamo sul mondo che ci circonda e sui nostri “stati interni”, noi creiamo uno specifico luogo mentale che, come una particolare sequenza in un film ha un suo tempo, un suo ritmo, una sua inquadratura, ecc.
Questa presa diventa il nostro specifico modo di essere al mondo in un determinato periodo di tempo ed è anche il modo immediato e “spontaneo” in cui noi leggiamo la realtà che ci circonda e che, contemporaneamente, creiamo.
L’inafferrabilità ci invita ad esercitare una presa e, a seconda di come la esercitiamo, costruiamo e co-costruiamo il nostro momento di vita.
Nella co-costruzione intervengono insieme: il mondo inteso come ambiente con le sue circostanze, le sue pressioni e i suoi oggetti; gli altri esseri viventi con la loro mente e la loro presa; e noi, con la nostra.
Per spiegare meglio questo concetto che è il cuore di questa Cronaca e che introduce le prossime, userò un celebre esempio in cui lo psicologo e psichiatra Daniel Stern descrive l’interazione fra una bambina e la madre. “La bambina di dieci mesi è seduta sul pavimento di fronte alla madre. Sta cercando di mettere a posto la tessera di un puzzle. Dopo diversi tentativi falliti ci riesce. Guarda la madre con un’espressione di gioia e di intenso entusiasmo. Il volto della bambina assume un’espressione prima di apertura (bocca aperta, occhi spalancati, sopracciglia alzate) e poi di progressiva chiusura, mostrando una serie di cambiamenti il cui profilo può essere rappresentato da un arco uniforme (che cresce, raggiunge l’apice e alla fine decresce). Nel frattempo agita le braccia in alto e in basso. La madre risponde intonando un “Sììì” con un tono prima ascendente e poi discendente che corrisponde all’aumento/diminuzione del volume: “Sììììììì”. Il profilo prosodico (il tono che dà alla voce) della madre corrisponde al profilo cinetico facciale della bambina e ne condivide la stessa durata.” (Stern 1985).
Quella di Stern è un’osservazione fatta con l’uso di telecamere e con l’intento di studiare in profondità l’interazione bambino-mamma.
Riguardando la scena al rallentatore diventa facile per l’osservatore misurare i tempi e il susseguirsi delle azioni.
Ciò che diventa evidente quando si osserva con attenzione questo tipo di scambio comunicativo fra esseri umani è lo sforzo per sintonizzarsi.
Superficialmente potremmo dire che quello che è successo fra la madre e la bambina è che “hanno gioito assieme”.
Questa è un‘ottima sintesi ma è quando ci chiediamo come hanno fatto per gioire assieme che possiamo osservare la sintonizzazione e, con essa, il punto in cui mamma e bambina si sono incontrate.
Dopo aver risolto il puzzle la bimba guarda verso la madre e comunica senza parole la sua vittoria. Ha dieci mesi e non ha ancora la possibilità di esprimersi con il linguaggio. Ha appena esercitato una presa sulla realtà e potremmo dire che questa presa le ha permesso di risolvere un problema.
All’altro capo della linea di comunicazione c’è la mamma che, come dice l’autore: “Non può limitarsi a dire ‘Oh, so cosa provi, so come ci si sente in questi casi’.” Deve trovare un modo per far capire alla bambina che ha capito e che le è vicina e, istintivamente, lasciando che sia l’inconscio a risolvere l’interazione, si sintonizza affettivamente con lei: con la voce accompagna l’espressione della piccola emettendo un suono che si accorda perfettamente ai suoi gesti. L’esclamazione di esultanza è la colonna sonora che la madre ha imparato ad aggiungere ai propri successi e probabilmente diventerà anche quella della bambina.
In quel momento le due menti si toccano e si forma un luogo condiviso, una posizione comune.
Per usare la nostra metafora: si verifica un incontro all’interno del labirinto e potremmo dire che mamma e bambina stanno esercitando, su canali diversi, la stessa presa sulla realtà. Viene in mente una famosa frase di Oscar Wilde: “Prima o poi amarsi è smetterla di guardarsi l’un l’altro e cominciare a guardare dalla stessa parte”.
Questa sequenza è in un certo senso più lunga da descrivere che da fare!
Chi di voi si è preso cura di un bambino sa esattamente di cosa Stern stia parlando. Tuttavia l’accurata osservazione e la riflessione sulle azioni ci permettono di soffermarci sugli eventi per capire, anche analiticamente, ciò che intuitivamente cogliamo.
E’ un po’ come riguardare la scena al rallentatore per renderci conto del tipo di prese che sono state esercitate.
Cosa chiedeva la bambina? Cosa si aspettava? Cosa ha risposto la mamma e cosa le ha insegnato rispondendo in quel modo?
E, più in profondità, quale luogo mentale e relazionale si è costruito fra di loro? Come questo punto di incontro diviene un luogo che permetterà alla bambina di gioire e di apprendere nel futuro?
Questa e mille altre osservazioni possono scaturire dalla semplice constatazione che in ogni momento, nel continuo flusso di pensieri, energia, emozioni e sensazioni che scorre nella nostra mente, noi stiamo esercitando una presa.
Questa presa è il nostro particolare modo di essere al mondo, di essere vivi.
E non può che avvenire nel cambiamento e nell’inafferrabilità: la tessera del puzzle sarà afferrata e messa al suo posto una miriade di altre volte e ci saranno sempre nuovi puzzles.
Ogni volta che in terapia chiedo a un mio paziente di riflettere nuovamente su un evento che ha vissuto, sto chiedendogli non solo di ri-descrivere l’episodio ma, soprattutto, di accorgersi di quale era il suo particolare modo di esserci in quel frangente.
Spezzettare il momento può essere utile per renderci conto delle tante variabili che sono entrate in gioco in quel pezzo di vita. Ma ragionare sulla presa che abbiamo esercitato su quelle variabili, è ciò che ci permette di accorgerci del modo in cui ci siamo (o non ci siamo) sintonizzati con la realtà che stavamo vivendo, degli incontri o degli scontri che abbiamo avuto, delle emozioni che abbiamo provato.
La mente non contiene oggetti ma relazioni.
Ci sono sempre, come minimo, un soggetto e un oggetto e c’è qualcosa che li lega, un qualche tipo di affetto, odio o amore, desiderio di vicinanza o repulsione, ecc.
Tutto questo è il labirinto e il modo in cui ci sintonizziamo e le prese che esercitiamo momento per momento creano i luoghi della mente.
Ognuno di questi luoghi è definito non tanto dagli oggetti in esso contenuti quanto dalla relazione che con questi oggetti riusciamo a creare.
Quanto ci piace quel luogo, quanto siamo disposti a starci o quanto volentieri ce ne allontaniamo, è ciò che determina il nostro stato d’animo.
Ma questa è un’altra Cronaca, la prossima e, probabilmente, altre a venire.