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Channel: Psicoterapia – Forme Vitali
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Cronaca 5 – La sintonizzazione

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“Se sono due, son due come lo sono
le ritte aste gemelle del compasso;
l’anima tua, il piede fisso, non dà segno
di muoversi, ma lo fa se lo fa l’altra.
E sebbene nel centro essa sia ferma,
pure quando l’altra lontana peregrina
s’inclina e verso lei tutta si tende
e torna eretta quando quella fa ritorno.
Tale sarai per me, che devo,
come l’altro piede, obliquamente correre.
La tua fermezza rende giusto il mio cerchio
e mi fa terminare al mio principio.”
John Donne

Mettere e togliere confini è una sorta di gesto che ognuno di noi ha appreso e che compie continuamente. Senza confini non ci sarebbe relazione e, in un certo senso, non ci sarebbe nemmeno comunicazione: la distanza fra noi e gli altri non esisterebbe e questo renderebbe superfluo ogni scambio di informazioni.

Se si osserva il rapporto fra un neonato e la propria madre e se ci si prende la briga di cogliere alcuni piccoli gesti che tra loro vengono compiuti, ci si rende conto di quanto tutta l’interazione umana, fin dai primi momenti di vita, si basa innanzitutto sulla capacità di avvicinarsi e allontanarsi.

Il bambino cerca continuamente la mamma, quasi nel tentativo di mantenere salda e intatta una simbiosi che è durata per tutti i nove mesi della gestazione. E tuttavia, man mano che cresce, impara a mantenere una distanza e un’indipendenza che, con il trascorrere del tempo, lo rendono sempre più autonomo.

Con l’aiuto di quella che lo psicoanalista Winnicott ha definito “madre sufficientemente buona” il bambino impara a modulare le distanze trovando il proprio modo di stare vicino e il proprio modo di essere separato. Sintonizzandosi con lui la madre (ma anche il padre e, in generale, ogni persona che di lui si prende cura) gli insegna a essere indipendente e, allo stesso tempo, in relazione.

La sintonizzazione è uno dei modi che abbiamo per rendere certi confini meno rigidi e per avvicinarci all’altro pur mantenendo e, potremmo dire, creando continuamente la nostra identità. Non è un’abilità particolare che si impara durante un corso universitario e che si riesce ad applicare quando si diventa genitori o psicoterapeuti.

Le più recenti ricerche neurofisiologiche hanno dimostrato con chiarezza sempre maggiore che “L’organizzazione cerebrale si basa su informazioni di natura genetica che ne consentono la maturazione e gli forniscono una predisposizione innata ad interagire con l’ambiente” (S.Hart).

Questa predisposizione innata è, in un certo senso, ciò che rende il nostro cervello e la nostra mente sempre aperti verso l’esterno. L’assenza di confini del labirinto è questa apertura innata. I confini vengono messi dopo. Alcuni di essi sono necessari e inevitabili e ci aiutano a differenziarci e a mantenere la nostra posizione nel mondo e nei confronti degli altri. Altri andrebbero…osservati con cura e, dal mio punto di vista, rimessi ogni tanto in discussione.

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Quando un nuovo paziente viene nel mio studio per un colloquio iniziale, in genere arriva con una richiesta specifica: vuole liberarsi da qualche sintomo, vuole comprendere meglio una parte della propria vita; a volte vuole semplicemente raccontare a qualcuno le proprie sofferenze.

E, ogni volta, per parlarmi di sé mi parla delle sue relazioni: descrive come vanno le cose con il coniuge o con il datore di lavoro, racconta dei propri rapporti con i colleghi o di quanto si senta solo e abbia bisogno di vicinanze e di affetto.

Come l’asta del compasso della poesia di J.Donne, per parlare di sé ognuno di noi parla della propria relazione con l’altro. Ma mentre la poesia descrive una sorta di perfetta sintonizzazione: una relazione in cui, come in una danza, ai movimenti di uno degli attori corrispondono quelli complementari e perfettamente calibrati dell’altro; le descrizioni che mi capita di ascoltare in seduta parlano spesso di malintesi, di incomunicabilità e di distanze difficili da colmare, di confini rigidi e a volte invalicabili.

Spesso faccio notare queste differenze ai miei pazienti invitandoli ad osservare quanto fossero più flessibili da piccoli, quanto fosse più semplice “fare la pace”, attaccare bottone o anche intrecciare alleanze o passare sopra ad un’offesa.

Anche quando analizzo con loro l’evolversi della comunicazione all’interno di qualcuno dei rapporti difficili che all’inizio allietavano e ora invece affliggono le loro vite, ciò che insieme notiamo è una sorta di rigidità: prima era più facile perdonare, più semplice riavvicinarsi, più naturale “passarci sopra”.

E quando chiedo cosa è veramente cambiato in genere ottengo una risposta che contiene un qualche “principio dormitivo”.

Il “principio dormitivo” è una spiegazione che non spiega niente; è ciò che porta un giovane medico, che Molière canzona nel “Malato immaginario”, a rispondere alla domanda: “Perché l’oppio fa dormire?” con la brillante risposta: “Perché contiene un principio dormitivo!”.

Quasi sempre alla domanda “Perché adesso sei più rigido?” ottengo con la stessa nonchalance la risposta “Perché la vita fa irrigidire; contiene qualcosa che fa irrigidire!”. E’ una risposta a cui sono abituato e a cui tutti siamo così assuefatti da considerarla vera. In verità questa affermazione non è né vera né falsa ma semplicemente inutile!

Quando la otteniamo, anche da noi stessi, dobbiamo avere la pazienza di riformulare con cura i nostri quesiti: cosa rende facile la sintonizzazione, perché sorridiamo e diventiamo simpatici con un bambino e cominciamo a ringhiare quando si avvicina troppo un adulto? E’ paura? E se sì, perché da piccoli non avevamo paura e li facevamo diventare subito simpatici e ora invece ci allontaniamo e li allontaniamo? O anche, perché appena ci siamo conosciuti ridevamo così tanto e ora sembra che non abbiamo niente da dirci? Se è vero che siamo più rigidi, cosa ci irrigidisce?

Questa e altre domande ci permettono di ragionare sui confini e di non dare per scontata la loro formazione e il loro mantenimento. Hanno inoltre la presunzione di non fermarsi alla prima risposta ma di cercare in profondità.

E molto spesso (quasi sempre) la risposta che trovo insieme ai miei pazienti, quella che racconta la ragione e spiega come mai la capacità di sintonizzarsi è diminuita col passare del tempo e con l’aumentare dell’esperienza, è una risposta che parla di natura e di cornici, di apprendimento e di capacità di giocare.

Scopriamo che il gesto che da piccoli era così facile compiere e che gli altri così spontaneamente compivano con noi, era proprio l’invito a giocare.

E se definiamo gioco come “l’instaurazione e l’esplorazione della relazione” (G.Bateson) vediamo che l’invito a giocare è ciò che più favorisce la sintonizzazione, ciò che con più facilità ammorbidisce i confini.

Come ebbe a dire Bateson: “Il cane sa come invitarci a giocare a rincorrerlo: abbassa il mento e la gola verso il suolo e si allunga in avanti, tenendo le zampe anteriori premute contro il suolo dai gomiti alle estremità. Gli occhi sono rivolti in alto e si muovono nelle orbite senza che la testa si sposti; le zampe posteriori sono piegate sotto il corpo, pronte a scattare in avanti. Chiunque abbia mai giocato con un cane conosce bene questo atteggiamento. L’esistenza di un segnale siffatto dimostra che il cane è capace di comunicare e di proporre una relazione specifica” (Corsivi miei).

Il gioco e la creazione del gioco sono la cornice che favorisce la relazione. Quando ci interroghiamo sulla nostra rigidità ci interroghiamo su quali fattori stanno limitando in noi la capacità di giocare.

Un cane sa come fare, un bambino sa come fare, un adulto…anche, tanto è vero che quando incontra un bambino o un cucciolo di cane sa come sintonizzarsi. Ognuno dei miei pazienti sa quale cornice teorica definisce un gioco perché sa istintivamente quando si gioca e quando “si fa sul serio”, quando ci si sta sfidando per divertirsi o per conoscersi e quando si sta litigando.

Spesso sintonizzarsi è, innanzitutto, cambiare cornice: avvicinarsi sapendo che l’altro si tirerà un po’ indietro, allontanarsi sapendo che sarà lui a farsi avanti; rassicurare mentre ci si sfida.

I cani lo fanno scodinzolando, gli esseri umani sorridendo.

Il labirinto contiene da sempre (questa sì, proprio come una virtù dormitiva) la capacità di sorridere e una parte di esso, la più oscura, è piena di sorrisi repressi e di inviti alla relazione troppo a lungo trattenuti.


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