“Gli schizofrenici hanno perso
fiducia nel tempo.
I bambini invece nel loro gioco
anticipano il futuro”
E.Erickson
Anni fa ho lavorato per un certo periodo in un Centro Diurno in cui venivano ospitati parecchi ragazzi con una diagnosi di Schizofrenia. Con alcuni di loro, dopo le inevitabili difficoltà comunicative iniziali, si è instaurato un rapporto duraturo.
Chi non ha mai avuto a che fare con una persona che soffre di schizofrenia tende a sottovalutare l’espressione “rapporto duraturo”; ma chi è passato sotto le forche caudine di un’interazione con una persona che sembra non riconoscerti ogni volta che ti rivede e con cui creare un contatto è sempre una nuova sfida, sa cosa intendo.
Da uno di questi ragazzi in particolare mi sono sentito tenuto a distanza, soprattutto nei primi mesi, e solo verso la fine del mio periodo di collaborazione con il Centro siamo riusciti a trovare un modo per sciogliere il ghiaccio e per instaurare una comunicazione che andasse al di là dei convenevoli. Il metodo che M. (l’iniziale del suo nome) aveva trovato per venirmi incontro e per aiutarmi ad entrare in contatto con lui era quello di subissarmi di domande “personali”: in genere evitava di guardarmi ma quando decideva di incrociare il mio sguardo faceva seguire al contatto visivo una serie incalzante di quesiti tipo “Quale è la marca della tua automobile?”, “Che numero di targa ha?”, “Quale è il tuo numero di telefono?”, “Quale è il tuo numero di carta di identità?”, ecc.
Dopo questo rituale iniziale in cui rispondevo ad ogni domanda, potevamo passare ad un rapporto più ravvicinato in cui mi raccontava delle cose di sé, esprimeva i suoi desideri e si parlava del più e del meno sciogliendo pian piano quella diffidenza e quella rigidità che caratterizzano la comunicazione di chi soffre di schizofrenia e, spesso, anche quella fra sordi che si instaura tra “persone normali”.
Alla fine del mio tirocinio le nostre strade si separarono e rividi M. solo anni dopo quando, insieme ad altri ospiti del Centro Diurno, venne in gita a Milano. All’inizio mi guardò come si guarda un perfetto estraneo e alla mia domanda: “Ciao M., come stai? Ti ricordi di me?” rispose che non aveva idea di chi fossi. Poi, dopo essersi gustato il mio imbarazzo, cominciò a dire che…forse sì, si ricordava di un tipo che aveva il tal numero di telefono e tal automobile con la tal targa e la tal carta di identità…solo non ricordava il nome e il cognome. A quel punto il contatto visivo diventò possibile, iniziammo a scherzare e fu come se ci fossimo visti giorni prima.
M. aveva ricostruito in poche battute e con eleganza una cornice che ci metteva a nostro agio e mi aveva comunicato in modo sottile e profondo che la relazione aveva resistito alle ingiurie del tempo.
Il messaggio implicito, ciò di cui queste cornici sono fatte, è un messaggio che dice “Questo è un gioco”. Ogni volta che riusciamo a circoscrivere lo spazio della relazione con questo tipo di messaggio le cose si alleggeriscono e diventa più semplice comunicare.
La capacità di giocare è ciò che promuove la relazione e, allo stesso tempo, favorisce l’apprendimento. Durante il gioco vengono apprese una serie di regole non scritte: impariamo il modo in cui ci possiamo avvicinare senza ferire e impariamo a “ferire un po’” ma senza offendere, facendo capire che “stiamo solo giocando”.
Grazie ad una cornice relazionale che crea nei partecipanti la consapevolezza che ciò che stanno vivendo “è un gioco”, è possibile mettere in atto una serie di comportamenti che ammorbidiscono e rendono valicabili i confini. Come fa notare l’antropologa M.Mead: “Credo che a tutti noi sia capitato di vedere un cane tollerare da un bambino un trattamento che non avrebbe mai tollerato da uomini o cani adulti…. C’è qualcosa nella natura di quell’azione tale per cui la mancanza da parte del bambino dell’intenzione di colpire provoca nel cane una tolleranza pari a quella che dimostrerebbe in un gioco.”.
La cornice crea quella tolleranza che rende le difese meno rigide e che, in un certo senso, “ritarda gli istinti”. Un rettile è molto poco bravo a giocare: il suo cervello, particolarmente limitato rispetto a quello di un mammifero, ha a disposizione solo una serie di risposte primitive che sono comunque più che sufficienti per sopravvivere. Queste risposte istintive si possono suddividere in tre strategie fondamentali, le famose “tre F”: Fight/Combatti, Flight/Scappa e Freeze/Immobilizzati.
I mammiferi, soprattutto quelli più evoluti, a differenza dei rettili, sono in grado di scegliere fra una quantità di comportamenti più sofisticati. Fra questi il gioco (quel comportamento complesso che noi umani chiamiamo “gioco”) funziona come una sorta di modulatore degli istinti: un cucciolo di leone o di scimmia o di essere umano impara a fingere di attaccare, fingere di scappare, fingere di immobilizzarsi e di avere paura.
Questa capacità di “fare come se” è ciò che davvero ci rende evoluti, ciò che ci permette di diversificare il comportamento e di apprendere nuove strategie. Ed è nel “fare come se” che sperimentiamo la possibilità di diventare altro da ciò che siamo e di creare nuove alternative, nuovi scenari: “Se il bambino gioca a impersonare un arcivescovo, non lo fa per scoprire che non lo è, ma per scoprire che è possibile espandere il proprio sé fino a includervi l’immagine di un arcivescovo.” E.Erickson.
Ogni riflessione sulla relazione non può prescindere dalla consapevolezza che, quando abbiamo a che fare con un altro essere umano, la capacità di stabilire una cornice che comunica che stiamo giocando è ciò che ci aiuta ad avvicinarci, a toccare ed essere toccati, a rassicurare e tollerare.
“Questo è un gioco” non significa “non stiamo facendo sul serio”: molti giochi sono incredibilmente seri, un bambino prende molto seriamente l’interpretazione dei propri personaggi, e quando ci si innamora si sta giocando ma, allo stesso tempo, si sta facendo incredibilmente sul serio. E chi è rimasto scottato in una relazione affettiva sa quanto di colpo i morsi smettano di essere finti e le ferite diventino reali.
Ma, nonostante le ferite, spesso gli esseri umani sono pronti a ricominciare, pronti a rimettersi in gioco, come i bambini dell’incipit di questa cronaca che, a differenza degli schizofrenici, non hanno perso la fiducia nel tempo e sono pronti ad anticipare il futuro.
Cosa fa la differenza? Perché ci sono persone anziane che sono ancora disposte a giocare e a credere nel futuro e altri, magari più giovani, che si irrigidiscono in poche comportamenti stereotipati che immobilizzano la loro psiche e le loro relazioni? Perché in certi contesti riusciamo a riattivare lo spirito del gioco che avevamo da bambini e in altri ci comportiamo quasi come dei rettili che hanno a disposizione poche risposte rigide e automatiche?
Il mio paziente e amico M. non si è comportato affatto come una schizofrenico quando, dopo anni, ci siamo incontrati. Può darsi che all’inizio abbia sentito l’impulso ad immobilizzarsi e in questo non è stato affatto diverso da me che avrei dovuto essere il terapeuta; anche io mi sentivo impacciato e imbarazzato. Entrambi cercavamo il modo per ricreare la vicinanza che c’era stata. M. ha risolto l’empasse riproponendo un rito che fra di noi aveva funzionato e dimostrando che la relazione non era andata perduta. E il rito ha sciolto le resistenze e ricreato la fiducia.
Come U.Galimberti, nel suo libro “Orme del sacro”, spiega: “Il Metodo predice gli effetti desiderati partendo dalle ipotesi anticipate, mentre il Rito si limita a ribadire delle azioni che hanno avuto successo. Ma senza il conforto del rito, cioè la ripetizione delle azioni che hanno avuto successo, sarebbe mai nato un metodo come ipotesi fiduciosa in ulteriori successi? Per fare una cosa, anche la più elementare, occorre infatti fiducia nella possibilità della sua attuazione.”.
La ricerca di questa fiducia è il motivo che spinge i bambini a farci raccontare sempre le stesse favole, sempre nello stesso modo, correggendoci quando cambiamo le parole e pretendendo una certa cadenza, un certo ritmo.
Mentre ascolta la storia, mentre si sottopone allo stress dovuto all’ansia che ogni favola deve contenere, il bambino sa di poter contare sulla relazione che si instaura con chi racconta. Sia lui che l’adulto conoscono a menadito lo svolgimento del racconto ma consolidano, fra di loro, il rapporto, sintonizzandosi insieme sullo stesso dramma.
Non è forse la stessa cosa per noi adulti? Non accade forse qualcosa di simile quando si diventa amici o anche, in seduta, fra un paziente ed un terapeuta?
Questa fiducia che viene ad instaurarsi mentre condividiamo alla pari, come in un gioco, un pezzo della nostra storia, è ciò che colma le distanze e ci rende vicini e separati, liberi in un legame.
Nel labirinto viene percepita come uno spazio più aperto degli altri, una radura in cui le difese possono essere abbassate e la solitudine dimenticata.