“Coloro che dicono che la spiritualità
non ha niente a che fare con la politica
non sanno cosa significhi davvero ‘spiritualità’”
Mahatma Gandhi
“E’ una gioia restare nascosti
ma un disastro non essere trovati”
D.Winnicott
La storia di cui parlo in questo saggio è qualcosa di diverso da un semplice aneddoto o da una storiella. E’ piuttosto una di quelle grandi metafore che, per descrivere una condizione, uno stato delle cose, un quadro della situazione dell’Uomo, inventa un intero cosmo: un insieme di mondi, ognuno dei quali rappresenta un livello di evoluzione e un modo di essere, di percepire e di rispondere alla “realtà” che ci circonda.
Sia la storia dell’Occidente che quella dell’Oriente sono piene di queste cosmogonie che, descrivendo certi tipi di “aldilà”, descrivono anche e soprattutto certi stati mentali, certe condizioni e certe tendenze che, quando agite, determinano i nostri comportamenti e le nostre abitudini.
In un momento in cui sembra inevitabile chiederci dove stiamo andando e se usciremo dalla trappola in cui ci siamo o ci hanno ficcati, credo sia il caso di riflettere su cosa ci aspetta fuori dalla porta della gabbia, fuori dal “regno” in cui ci sentiamo imprigionati.
La storia di cui scrivo è tratta dalla letteratura Buddista e parla di una scimmia, del suo vagare e dei regni attraverso cui i suoi sforzi e i suoi desideri la sospingono.
Inizia con uno stato di terribile claustrofobia: la scimmia è imprigionata in una cella angusta dalla quale sente di non poter uscire; la prigione ha cinque finestre e alti muri e non ha porte e il povero animale sbatte contro i muri, si arrabbia e si dispera nel tentativo di trovare una via di uscita. Vedendo che i suoi sforzi non ottengono alcun risultato, presto si lascia cadere in una profonda disperazione e nella più nera depressione.
Niente sembra poterla consolare, desidera suicidarsi ma nemmeno quella via di uscita sembra praticabile. Le antiche raffigurazioni rappresentano la scimmia che si trova in questo stato nello stesso modo in cui, nel Medioevo, venivano raffigurate le anime che subivano le pene dell’inferno: torture con il fuoco e con il ghiaccio, calderoni bollenti, diavoli e l’assoluta mancanza di speranza.
Eppure, proprio come succede in certe depressioni, ad un certo punto la scimmia, abbandonando tutti i propri sforzi, crea una sorta di rilassamento che le permette di trovare un po’ di sollievo. L’abbandono dello sforzo fa sì che i muri diventino meno solidi ed essa esce dalla prigione per ritrovarsi in un mondo un po’ diverso dove la sua brama si scontra con uno stato di povertà assoluta; non è più completamente isolata e relegata, vede attorno a sé degli oggetti, dei cibi prelibati, cose che potrebbe prendere e di cui potrebbe godere e, con grandi sforzi, riesce a prenderne alcune e tenta di nutrirsene. Ma la sua fame è destinata a non essere soddisfatta.
E’ giunta in un mondo di spiriti famelici che, nell’iconografia classica, sono rappresentati come degli esseri con dei lunghi, strettissimi colli e con dei ventri gonfi. Tutte le loro energie sono dedicate allo sforzo di ingerire e digerire ciò che il mondo offre ma la loro fame non è mai placata.
Chi, magari facendo il mio lavoro, ha avuto a che fare con un tossicomane, con un giocatore d’azzardo patologico o con una persona dedita allo shopping compulsivo, ha immagini molto più moderne e meno esotiche da aggiungere all’antica iconografia.
A volte la scimmia rimane a lungo imprigionata in questo regno di spiriti famelici ma spesso riesce a specializzarsi nella ricerca di “qualsiasi cibo”, “qualsiasi oggetto”. Entra così in un altro regno, quello animale rappresentato da un maiale che va in giro continuamente alla ricerca di qualsiasi cosa possa essere mangiata. Trasformatasi in maiale la scimmia ispeziona il proprio territorio e spinta da una forza rigida e persistente continua imperterrita nella ricerca di soddisfazione, senza chiedersi troppe cose, seguendo la propria natura ed attenendosi a degli schemi fissi propri del regno animale. Questo stato è, per i Buddisti, il regno dell’ottusità: la claustrofobia e la brama dei primi due regni sono attenuate dall’ottuso attenersi alla ricerca di soddisfazione che, come una bulimia, spinge da una abbuffata all’altra (chi vedesse in questo regno una metafora antica delle code davanti ai negozi prima dei saldi o dell’affannosa ricerca “dell’informazione per l’informazione”…be’, magari sta facendo delle buone associazioni).
E se il maiale è un maiale coscienzioso e si comporta a lungo come un maiale ma poi, fra un tubero e l’altro, comincia a pensare e a scegliere una cosa invece di un’altra e a discriminare e a chiedersi se “ha un senso andare avanti a vivere così”, ecco che entra nel quarto regno, quello della discriminazione e della razionalità, il regno umano.
La nostra scimmia, a questo punto, è in un luogo molto più ampio perché la sua mente gli permette di vedere oltre al proprio naso: aumentano le scelte e un maiale che può decidere cosa è adatto o non adatto, cosa lo renderà accettabile per i suoi simili e cosa gli permetterà di avere successo, è un maiale che può entrare a pieno titolo nel mondo degli uomini. E’ un maiale che “sa mentire”, sa sembrare qualcosa di diverso a seconda della situazione in cui si trova ed è in grado di studiare strategie che massimizzano il piacere e minimizzano il dolore. Grazie a queste strategie è in grado di inventarsi alternative e di progredire.
Grazie al progresso la scimmia che si aggira nel regno umano può, non solo cercare beni che la soddisfino ma, anche, inventarne di nuovi e “passare dalla prima versione alla 4.0 in men che non si dica”.
Ma è nel regno umano che la scimmia si rende conto dell’impermanenza di tutto questo. Finchè vagava nel regno animale senza chiedersi nulla, finchè stava vicina alla propria natura, non pensava alla fine della vita, alla malattia e alla morte. Ma, ora che la sua mente si è allargata, è in grado di considerare il futuro e di intravedere la sofferenza che verrà.
E non è un caso se, a questo punto, comincia a desiderare qualcosa di più, qualcosa che vada oltre al mondo umano. Comincia a fantasticare sulla possibilità di prolungare la propria vita, di aumentare il proprio potere e di raggiungere, se non l’immortalità, almeno la sensazione di completo dominio sul proprio mondo e sul proprio futuro.
E’ facendo leva su questi desideri che la scimmia diventa sempre più ambiziosa, competitiva e aggressiva. Iniziano ragionamenti che puntano alla perfezione, al conseguimento di stati di esistenza più elevati e ad una sorta di “paradiso in terra” in cui si spera di poter godere di piaceri sempre più duraturi e di poter ridurre al minimo dolore e sofferenza. E’ una condizione di puro edonismo in cui la ricerca del piacere la fa da padrona. I Buddisti chiamano questa condizione “il regno degli dei gelosi”. Ciò che rende gelosa la scimmia è, non tanto vedere qualcuno che ha più di lei o qualcuno che potrebbe portarle via i propri privilegi, quanto l’intuire che, al di là della doratura superficiale, un tarlo corrode anche ciò che luccica e, prima o poi, ciò che ha le verrà tolto, verrà conquistato da un nuovo “dio” che apparirà sulla scena. Le parabole di tanti potenti incapaci di lasciar andare e sempre più attaccati ai loro privilegi, esemplificano perfettamente la condizione della scimmia in questo stato.
Ma non è finita: accade che la scimmia giunta a questo livello del proprio sviluppo diventi così contenta di sé da fermarsi, come Narciso, a contemplare la propria immagine. Magari è riuscita a raggiungere tutti gli obiettivi che si era prefissa, magari è diventata Presidente del Consiglio, o è un manager di grande successo. Si piace molto e se ne sta a rimirare la propria immagine saziandosi del proprio potere, senza provare più nemmeno invidia e celebrando se stessa e cibandosi della fama e del successo.
A volte riesce addirittura a trascendere certi piaceri e a non avere più bisogno delle cose che soddisfano i poveri mortali. Siccome “possiede tutto” può godere di cose sempre più sottili: la bellezza, l’arte, gli intrattenimenti di corte.
Ma che fine hanno fatto gli altri? E’ sicura, la scimmia, che nessuno ruberà il suo posto? Ora che ha raggiunto la meta, non è che la meta scompare? Nemmeno nel narcisismo più patologico è possibile una completa aderenza alla propria immagine. Il pensiero degli altri (non dei cortigiani che sono visti, in fondo, solo come una emanazione di sé e, quindi, sono ritenuti non pericolosi) è comunque presente e la paura di perdere la propria posizione o di essere spodestata, porta la scimmia a ricadere nel regno degli dei gelosi: ancora in competizione con gli altri e con una paura sempre più cronica.
Ed è a questo punto che comincia una più o meno veloce, ma sempre inesorabile, discesa.
La scimmia ha fatto tutto il tragitto: dalla prigione claustrofobica fino ad una sorta di paradiso terrestre in cui ha sperato che tutti i suoi desideri potessero essere soddisfatti e la sua brama finalmente placata. Ma salendo dagli inferi ha portato con sé la propria prigione. I confini non sono affatto scomparsi, i muri della cella sono ancora lì e anche nel suo palazzo dorato non è al riparo dalla disperazione e dalla claustrofobia. E’ pronta per iniziare da capo un nuovo giro della Ruota della Vita, pronta a tornare nell’insoddisfazione del regno degli spiriti famelici o, peggio, nell’angoscia della depressione e dell’isolamento.
Secondo i testi buddisti al centro di questa ruota sulla cui circonferenza la scimmia claustrofobica vaga “…si muovono all’infinito le forze propulsive dell’avidità, dell’odio e dell’illusione, rappresentate da un gallo rosso, un serpente verde e un maiale nero che si azzannano la coda l’un l’altro ad indicare la propria interdipendenza. Sono forze che perpetuano il nostro estraneamento da noi stessi e che ci tengono incatenati alla ruota. …La confusione riguardo noi stessi, la paura e l’insicurezza, ci inducono a rincorrere le esperienze piacevoli e a rifiutare quelle spiacevoli, malgrado l’inutilità di tale sforzi.” (M.Epstein)
E’ naturale preferire il piacere al dolore e sarebbe impossibile convincere la scimmia a fare altrimenti. Ma è la corsa verso il piacere che va osservata: è il cieco seguire la strada verso il paradiso che deve trasformarsi.
La scimmia può fermarsi a riflettere e il regno umano è il posto perfetto per ripensare il tragitto e correggere le tendenze.
L’ossessiva ripetizione degli stessi gesti anche se sappiamo che condurranno sempre nel solito punto e allo stesso risultato, quella che in psicoanalisi è stata definita Coazione a Ripetere, affonda le proprie radici nel desiderio della scimmia di progredire a prescindere dagli altri e spesso a dispetto degli altri.
L’ignoranza è ignoranza dell’interdipendenza e della relazione. Come dice il titolo di un recente libro “nessuno si salva da solo”: la scimmia che tenta la propria scalata al paradiso in solitaria, porta con sé la solitudine e la claustrofobia della prigione da cui è partita. Il regno umano è il punto in cui si può mettere in discussione lo sforzo di andare oltre e il progresso a tutti i costi. E’il posto in cui la scimmia “Comincia a rendersi conto che il mondo non è mai stato al di fuori, che è stato il suo atteggiamento dualistico, la separazione ‘io’ e ‘altro’ a creare il problema. Comincia a capire che è proprio lei a rendere solidi i muri, a tenersi prigioniera per l’ambizione.” (C.Trungpa)
E’, in altre parole, il punto di partenza per una liberazione dall’isolamento narcisistico, per una re-visione dei confini e per un allargamento della consapevolezza oltre alla stretta cerchia del sé individuale. Solo con questo tipo di lavoro su se stessa la scimmia ha qualche chance di uscire dall’interminabile ciclo della coazione a ripetere (o del Samsara di cui parlano i testi buddisti).
E, su un piano più squisitamente politico, credo che solo riflettendo di nuovo e più profondamente sull’avidità, sull’avversione e sull’ignoranza, potremmo fare qualcosa per scendere da un carrozzone che è destinato a girare in tondo in una claustrofobia che è la causa e allo stesso tempo l’effetto del nostro “progredire” senza aprire gli occhi.