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Channel: Psicoterapia – Forme Vitali
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R.A.I.N.: come ce la raccontiamo

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“L’arte di vivere non consiste né nel lasciarsi portare dalla
corrente con disinteresse né nell’aggrapparsi alle cose,
pieni di paura. Consiste nell’essere sensibili a ogni istante
considerandolo del tutto nuovo e unico: consiste
nell’avere una mente aperta e pienamente ricettiva.”
Alan Watts

Ci sono delle incredibili affinità fra alcune, recenti, scoperte delle neuroscienze e conoscenze antiche che parlavano, secoli fa, della mente, del suo funzionamento e degli strumenti che ognuno di noi potrebbe usare per modificarla.

I quattro saggi sulla depressione che sono comparsi in questo blog sono un piccolo esempio di come si può guardare ad uno stato della mente che, per quanto “scomodo” e sgradevole, è comunque una delle tante condizioni in cui il nostro umore, il nostro modo di sentirci, può essere declinato.

La Depressione Clinica nelle sue varie manifestazioni (Episodio Depressivo Maggiore, Psicosi Maniaco-Depressiva, Distimia, ecc.) va considerata come una vera e propria malattia che deve essere curata con una serie di interventi, farmacologici e di psicoterapia di sostegno, che aiutino il paziente a svincolarsi da quello che è, a tutti gli effetti, un disturbo grave e complesso.

Si può dire che la cosiddetta Depressione Maggiore è il punto estremo e negativo di un continuum che va da una condizione di pieno benessere psicologico da una parte fino alla stato di tristezza, immobilità e profonda prostrazione che caratterizza i livelli più gravi di questo disturbo.

La depressione di cui ho parlato nei saggi è più uno stato di scontento, di malessere e di “disposizione negativa” nei confronti di noi stessi e del mondo. E’ una posizione che prendiamo e un’ottica sulla vita che non possiamo confinare all’interno del cervello liquidandolo come uno scompenso chimico o come una malattia che dobbiamo mettere in mano a uno specialista perché da soli non potremmo uscirne. E’ anche qualcosa che ci circonda, uno stile di vita che ci viene proposto (più o meno subdolamente) e a cui ci capita di aderire o che ci tocca subire.

E’, insomma, innanzitutto, un modo in cui ce la raccontiamo o ce la raccontano. E le storie, le nostre narrazioni di noi stessi e delle nostre relazioni, si comportano come una trama che influenza nel bene e nel male il nostro umore, lo stato d’animo che, sempre, ci accompagna nella vita di tutti i giorni.

Descrivere l’attuale crisi economica e sociale come: “qualcosa su cui io non posso fare niente”, “qualcosa che devo capire, che mi riguarda e che mi chiede un cambiamento di punto di vista”, “qualcosa che attiva in me la voglia di reagire, di indignarmi, di aprirmi ad altre possibilità”, significa raccontare a me stesso la stessa “realtà” guardandola da ottiche molto diverse e creando in me emozioni e reazioni diverse.

Una descizione mi può mettere paura e congelarmi, un’altra può rendermi combattivo, un’altra più attento e consapevole.

Ognuna di queste interpretazioni della realtà è anche una diversa trama che condiziona il mio modo di pensare e di sentire.

E questo mi porta direttamente all’acronimo del titolo: R.A.I.N. (pioggia in inglese) che sta per Riconoscimento, Accettazione, Investigazione, Non-identificazione.

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Riconoscimento: quando sono preda di uno stato d’animo devo inizialmente esercitare la mia capacità di riconoscerlo per quello che è. Come dice J.Kornfield (da cui traggo la descrizione dei “passi” di RAIN): “Il riconoscimento è il primo principio della trasformazione. Quando siamo bloccati, nella vita, dobbiamo essere disposti innanzitutto a vedere ciò che è così com’è… Il riconoscimento ci fa uscire dalla negazione. La negazione mina alla base la nostra libertà: il diabetico che nega la malattia del suo corpo non è libero, né lo è il dirigente stressato e travolto che nega quanto gli costi il suo stile di vita, o l’aspirante pittore pieno di autocritica che nega il piacere che prova nella sua arte.” (J.Kornfield, Il cuore saggio, pag. 118).

Non riconoscere è, insomma, negare e, quindi, non sapere il punto in cui mi trovo nel labirinto (cfr Cronaca 1) e, allo stesso tempo, non accorgermi dell’inconsapevolezza con cui “mi descrivo”, non capire quali mie convinzioni e quali condizioni interne determinano il mio sentire.

L’Accettazione è il passo successivo: non si tratta di subire passivamente lo stato nel quale mi trovo quanto, piuttosto, di avere il coraggio di partire da lì prendendomi la responsabilità della mia condizione psichica ed emozionale. “Un uomo cominciò a dare grandi dosi di olio di fegato di merluzzo al proprio dobermann perché gli avevano detto che faceva bene ai cani. Ogni giorno teneva ferma la testa del cane fra le ginocchia, ignorando le sue proteste, gli apriva a forza le mandibole e gli versava in gola il liquido. Un giorno il cane si divincolò liberandosi e l’olio si versò sul pavimento: con grande sorpresa dell’uomo il cane tornò a leccare la piccola pozza. A quel punto l’uomo scoprì che il cane lottava non contro l’olio di fegato ma contro quel modo forzato di somministrarglielo.” (J.Kornfield, Il cuore saggio, pag. 120).

Quante volte ci trattiamo nello stesso modo? Esercitiamo su noi stessi una presa; non la riconosciamo e continuiamo ad insistere anche se ci rende rigidi e innaturali, snaturandoci e “violentandoci”.

L’Investigazione è il terzo elemento della trasformazione. Corrisponde a quell’atto che ho descritto nel terzo saggio sulla depressione, quello che parla del diciottesimo cammello. E’ un modo diverso di guardare la scena: un interesse particolare che è più simile a quello di uno studioso distaccato che a quello di un animale intrappolato che si divincola. Si tratta di ascoltare cosa succede dentro di noi: riconoscere ed accettare le nostre emozioni, sapere che “il corpo vuole la sua parte”: a volte è il nostro stesso modo di prenderci e di descriverci che crea il problema, che determina l’umore e le sensazioni fisiche che, in una determinata situazione, percepiamo.

Senza una accurata investigazione che ci permetta di accorgerci di “cosa ci stiamo facendo”, di come reagiamo al mondo e di quanto le nostre reazioni ai “fatti” li colora di una certa tonalità emotiva, procediamo come alla cieca, dimentichiamo cosa dovremmo aggiungere o togliere alla situazione e ci arrovelliamo in un problem-solving sterile che crea più ostacoli di quanti ne toglie.

Spesso, in seduta, osservando insieme ad un paziente ciò che lui/lei stava facendo a se stesso in una certa situazione, ci siamo resi conto di come gran parte della sua sofferenza non dipendesse dagli altri ma dal modo compulsivo in cui lui stesso applicava vecchie soluzioni, del tutto inadatte al problema presente.

Investigare il modo in cui ce la raccontiamo, la maniera in cui ci stiamo inconsapevolmente descrivendo è il terzo passo per raggiungere la parte finale del percorso: la Non-identificazione. Non identificarsi è una pratica che passa attraverso una singola domanda: è questo ciò che sono realmente?

Non è una domanda facile e non vuole esserlo. Dovremmo porcela solo dopo aver riconosciuto, accettato e investigato la situazione, e corrisponde a quell’atto che nell’ultimo saggio ho definito “togliersi di mezzo”. E’ un gesto che diventa possibile solo dopo un gesto di introspezione che ci porta a poterci staccare dalle emozioni distruttive (paura, collera, risentimento, attaccamento eccessivo) che ci attanagliano. E’ una sorta di distacco che non ha niente a che fare con l’apatia e che parte dalla consapevolezza che noi non siamo le nostre emozioni e le nostre reazioni e che, a monte di ciò che sentiamo e del modo in cui agiamo, c’è sempre la nostra libertà di scegliere un modo diverso di porci, di prenderci, di raccontarcela.

RAIN è un esercizio liberatorio e non mi è mai capitato di vedere miglioramenti in un paziente senza che questi avesse compiuto, da solo o in seduta, in un modo più o meno esplicito e più o meno velocemente, questi passi di consapevolezza che portano, necessariamente, ad una trasformazione.


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