“Ormai conosciamo tanto da essere
praticamente incapaci di essere saggi”
W.R.Bion
Questo saggio è un abbozzo: una serie di frammenti e di riflessioni su un argomento su cui menti molto preparate hanno speso tanta energia e tantissimo pensiero.
Il concetto di Coazione a Ripetere (vedi il saggio “La coazione a ripetere e il metodo pericoloso”) è stato affrontato da Freud all’inizio del secolo scorso. Da allora un’intera schiera di grandi psicoanalisti (Bion, Winnicott, Melanie Klein, Lacan, ecc.) hanno analizzato questa apparentemente inspiegabile tendenza dell’essere umano a ripetere comportamenti dolorosi senza ricavare dalla ripetizione nient’altro che sofferenza mista ad una sorta di godimento del ripetere che, per quanto paradossale, si può riscontrare in ogni paziente che, anche se pienamente convinto della distruttività dell’azione che compie, non riesce a trattenersi dal metterla in atto.
Io credo che, sia dal punto di vista teorico che da quello clinico, una delle intuizioni più feconde sul motivo per cui la ripetizione nonostante tutto avvenga, sia stato formulato da W.R.Bion.
Questo psicoanalista ha affermato che i pensieri accadono prima della creazione della mente e: “La mente fu creata per assecondare l’emergere di ‘pensieri senza un pensatore’, per ‘curarsene’[to mind], (legarli) in congiunzioni costanti, cioè come pensieri dotati di un nome” (J.S.Grotstein, Un raggio di intensa oscurità).
Niente paura… le prime volte che ho studiato Bion ho pensato che fosse un autore tutto sommato delirante e che molte delle cose che diceva fossero incomprensibili. So che lo hanno pensato anche molti miei colleghi e solo per il fatto che i suoi libri erano contenuti in certi esami ho fatto degli sforzi per capirli e, a volte, per mandare a memoria quel tanto che serviva per superare l’esame. Solo anni dopo mi sono accorto che alcune delle cose che avevo letto e che erano rimaste depositate da qualche parte ora avevano un significato. Mi sono anche reso conto che finalmente avevo una mente in grado di pensare alcuni di quei pensieri e… l’ho riletto.
Avrò cura di spiegare qui alcune delle cose di Bion che vado a citare. Facendolo probabilmente sorvolerò su alcune delle parti che questo autore riteneva essenziali; me ne dispiace ma è necessario per rendere meno ostico per chi legge, senza poi dover sostenere un esame, un materiale che non è facile ma che credo sia molto importante per capire meglio il meccanismo della coazione a ripetere. (I corsivi che troverete nelle citazioni da qui in poi sono miei e sono una spiegazione di certi termini).
Dunque: Bion dice che la mente nasce dopo la nascita di certi pensieri. Dice anche che: “L’aspetto essenziale della capacità di pensare è la capacità di tollerare la frustrazione, cioè di essere in grado di tollerare l’assenza del seno (seno è ciò che per il bambino rappresenta la madre, la figura che gli presta le cure, che lo nutre, lo contiene, lo rassicura). Questa capacità di tollerare la frustrazione permette al bambino di contemplare l’esistenza di uno spazio vuoto dove un tempo c’era il seno (la madre contenitiva) e in cui auspicabilmente, con fede, esso vi tornerà. Questa tolleranza permette a questo spazio consacrato di diventare un significante–contenitore spaziale insaturo (non completamente pieno, riempibile) che corrisponde ed è dedicato all’oggetto–pensiero che vi appartiene (in altre parole il bambino riesce a creare uno spazio in attesa della madre e quello spazio è pieno di significati che rimandano e sono dedicati all’oggetto/madre che in quel momento non è lì ma può essere in qualche modo pensata). Il bambino deve serbare quello spazio per il ritorno dell’oggetto, in quanto parte del patto con l’oggetto e, in tal modo, egli pensa.” (J.S.Grotstein, Un raggio di intensa oscurità).
In altre parole, e detto in modo molto semplice: per ognuno di noi la madre, una madre sufficientemente buona, è stata il contenitore nel quale potevamo riversare le nostre paure, le nostre rabbie, le nostre angosce; questo contenitore è stato spesso disponibile e la sua presenza ha fatto sì che anche i nostri pensieri e le nostre emozioni più spaventose trovassero in qualche modo una collocazione rassicurante o, quantomeno, analgesica e tranquillizzante; a volte il contenitore non era disponibile perché la mamma era assente o distratta o “depressa” per motivi suoi e… abbiamo dovuto pensarla, abbiamo dovuto sperare che tornasse e, nel frattempo, abbiamo dovuto contenerci da soli.
Secondo Bion è così che pian piano abbiamo costruito una mente: un contenitore dei pensieri, qualcosa che ci permettesse di placare l’ansia e, dando un nome a ciò che provavamo, cominciare ad impossessarci di pensieri che altrimenti, senza un pensatore, avremmo trovato inspiegabili e incontrollabili.
C’è una bella differenza fra il sentire una paura terribile o un “terrore senza nome” rispetto al sapere che “i pensieri che sto facendo mi stanno spaventando”. Se sono io che sto pensandoli… forse posso fare qualcosa al riguardo, posso provare a ridimensionarli, posso tranquillizzarmi, posso sperare che presto l’oggetto dei miei desideri tornerà, con esso tornerà la pace e finalmente potrò sperimentare nuovamente la vicinanza e il calore al posto della solitudine e del vuoto. Nel frattempo posso pensare altre cose, posso intrattenermi con alcuni di quegli oggetti interni che so che mi appartengono: certi pensieri confortanti, interessanti, piacevoli.
Lo spazio consacrato che diventa un significante–contenitore spaziale insaturo è, detta in altri termini, questa capacità di stare da solo con me stesso e riempire un vuoto tollerabile con pensieri che so essere miei.
Quando ha inizio il pensatore ha inizio un qualche tipo di causatività: una possibilità di tenere dentro e di non sentirsi completamente esposti al vuoto. Una mente!
Nella coazione a ripetere la capacità di pensare è compromessa: il giocatore d’azzardo sa bene che non dovrebbe giocare e nel frattempo mette i soldi nella macchinetta, il bulimico mangia insieme al cibo i sensi di colpa che gli ribadiscono che non dovrebbe abbuffarsi, il fumatore nello sforzo di avere la volontà per smettere di fumare, si accende una sigaretta.
Laddove non sappiamo pensare… agiamo! E’ molto evidente nelle tossicodipendenze e molto più sfumato nelle varie “psicopatologie della vita quotidiana”.
E’ come se su certi aspetti della nostra vita non fossimo riusciti a creare una mente, a mettere in piedi un processo che ci permetta di far fronte al vuoto e all’angoscia che certi aspetti della vita portano inevitabilmente con sé.
Non riuscendo a pensare in quel vuoto, passiamo all’azione mettendo in atto una serie di comportamenti che sembrano alleviare la tensione. Vista in questi termini non c’è molta differenza fra un bambino che si succhia compulsivamente il dito e il fumatore o l’alcolista che portano alla bocca la sigaretta o il bicchiere. Tutti e tre cercano di alleviare la tensione, tutte e tre, se non riusciranno a pensare invece di agire, ripeteranno il comportamento ogni volta che il disagio connesso alla mancanza di qualcosa (nel caso delle tossicodipendenze la mancanza della sostanza a cui si è assuefatti, ma non solo) si ripresenterà.
In tanti dei contesti della nostra vita abbiamo smesso di succhiare il dito. Abbiamo costruito una mente che è in grado di tollerare una grande quantità di frustrazione; sappiamo posticipare il piacere e fare ciò che è giusto fare in certi momenti: lavorare, essere responsabili, temperanti, empatici. A volte sappiamo addirittura prenderci certi piaceri senza esagerare.
Ma ci sono punti su cui facciamo acqua, parti del nostro comportamento in cui sembriamo degli infanti, aree della nostra mente da cui sgorgano azioni inappropriate e prive di saggezza. Sono aree in cui per qualche motivo abbiamo fallito nell’impresa di costruire una mente, luoghi in cui i pensieri sembrano procedere senza un pensatore trasformandosi inevitabilmente in azioni.
La costruzione di una mente è un atto complesso. Gran parte del lavoro l’abbiamo compiuto, più o meno inconsciamente, da piccoli quando le nostre occupazioni principali erano il gioco, l’esplorazione, l’apprendimento.
Da adulti l’occasione più propizia per portare avanti il lavoro ci è fornita da quelle che definisco Relazioni Significative: quelle in cui c’è data la possibilità di confrontarci con persone che ci mettono alla prova e, nello stesso tempo, ci offrono un rapporto empatico: uno spazio in cui possiamo davvero incontrare l’altro.
Credo che ognuno di noi sia alla ricerca di questo tipo di rapporto. E nella mia esperienza clinica so che coloro che più lo cercano sono spesso coloro che sono più disperatamente impegnati nella costruzione e nella ristrutturazione di quelle parti di sé che trovano inadeguate, insoddisfacenti, incomplete.
Alcuni di loro, purtroppo, si impegnano in questo difficile compito ripetendo compulsivamente quelle azioni che, invece di creare qualcosa, masticano in continuazione lo stesso boccone.
Tutti noi potremmo accorgerci della nostra coazione a ripetere osservando nella nostra vita quei comportamenti che non producono altro che il bisogno che tentano di soddisfare.
E mi sembra emblematico a questo riguardo l’esempio di un terapeuta, Mark Epstein, che, parlando della propria analisi, dice: “Quando ero in analisi il mio psicoterapeuta mi interrompeva spesso chiedendomi di ripetere quello che stavo dicendo e dirlo a lui. Puntualmente, mi offendevo per l’interruzione e pensavo che lui non mi stesse proprio ascoltando se mi bloccava in quel modo, ma con il tempo riuscii ad accettare quello che cercava di ottenere. Parlargli direttamente mi rendeva più ansioso ma mi mostrava quanto fosse difficile per me essere in relazione in modo diretto. L’importanza dell’interrompermi più volte consisteva nel farmi scoprire quanto io fossi di intralcio a me stesso e come mi chiudessi a riccio senza rendermene conto. Quando sono stato in grado di vedere quello che facevo, ho iniziato a cambiare. Non avrei saputo come lo stavo evitando, o persino che lo stavo evitando, se non mi avesse interrotto per chiedermi di ripetere quello che avevo detto. Avrei continuato ad essere prigioniero della mia storia e limitato dalla mia angoscia, senza sapere di essere così limitato. Qualunque cosa dicessi si rivelava meno importante del fatto che avevo dei problemi a dirla.” (M.Epstein, La continuità d’essere).