“… giacché è lo sguardo che
definisce la realtà…”
A.Romano
Ho ricevuto un po’ di domande, dopo l’ultimo post, a proposito della differenza fra fantasia e immaginazione e a riguardo del loro nesso con la funzione del contenimento.
Così come altri concetti che tentano di descrivere funzioni e “oggetti” psichici, anche quello di contenimento non può essere definito in modo rigoroso. Prima di tutto perché è una metafora, uno strumento che prende a prestito idee da un contesto diverso per approssimarne altre che assomigliano a cose e azioni che osserviamo in quello di cui stiamo parlando. E poi perché la psiche stessa preferisce le amplificazioni alle definizioni; sfugge alle categorizzazioni rigide e riempie le regole di eccezioni che le sovvertono.
Continuerò quindi, per forza di cose, ad essere un po’ sfuggente e ad offrirvi più un’amplificazione delle idee esposte nell’ultimo articolo che non una spiegazione più accurata.
Le immagini della madre e del bambino (intendo sempre, ovviamente, anche la bambina) sono immagini archetipiche: ricorrono da sempre, nella vita degli uomini e in ogni cultura, e vanno al di là della nostra personale esperienza e concezione; essendo archetipi stanno prima, informano le idee che abbiamo o che possiamo farci sulle cose che tentiamo di definire e che loro definiscono.
La madre personale, quella che ognuno di noi ha vissuto o che può provare ad incarnare ogni volta che svolge un maternage su di un bambino, è qualcosa che è già stato vissuto: il nutrimento, il contenimento, la cura, l’educazione, lo svezzamento; il seno, il grembo, il focolare, la casa, la società; l’attaccamento, il non lasciar andare, l’ansia dell’abbandono, la stretta che contiene troppo… tutte queste idee non sono che una parte degli attributi che possiamo riferire all’immagine di madre.
La stessa cosa possiamo dire per il bambino: un’altra figura mitica che sta a significare la fragilità, la potenzialità, la crescita, l’espansione, l’esplorazione, l’eterna ricerca di…, la spinta verso, ecc.
Nella Psicologia Analitica, Madre e Bambino formano una sizigia: un’unione indissolubile, composta da figure che compaiono quasi sempre insieme e che comunque si evocano, come il maschile e il femminile, il sole e la luna, ecc. Quando dico bambino implico in qualche modo madre/contenimento e quando dico madre implico in qualche modo bambino/contenuto.
Eppure sono, o dovrebbero essere, destinati a separarsi: ogni madre dovrebbe accompagnare i figli dentro al mondo e poi, via via, allentare la propria presa, affidarli ad altri “grembi” e guardarli crescere ed allontanarsi. Nel farlo deve o dovrebbe aiutare il bambino a trasformarsi in un adulto.
Il bambino è fantasia, sogno e potenzialità ma: “Perché vi sia trasformazione il sogno dovrebbe essere sostituito da un progetto e quindi entrare nel circuito vitale di nascita e morte.” (A.Romano).
Questo passaggio dal sogno al progetto è ciò che dovrebbe trasformare il bambino in adulto e liberare la madre dal dovere di immaginarlo e di dirigere la sua fantasia così che possa divenire concreta e influenzare il mondo.
Un contenimento che non prevede la trasformazione è cattivo contenimento: qualcosa che trattiene in una stretta che non permette la crescita e il movimento verso l’indipendenza.
E siccome, da bravi archetipi, madre e bambino non muoiono, ricorre sempre, in ognuno di noi, questa tensione fra sogno e progetto: questa lotta fra una tendenza regressiva che ci riporta al bambino sognante e ad un grembo che conforta e crea dipendenza; e una spinta esplorativa che ci spinge verso l’Aperto, nel mondo poco famigliare ma interessante e attraente in cui ci si può perdere.
Il contenimento (il nostro su noi stessi, quello che altri esercitano su di noi e quello a cui siamo sottoposti dal “mondo che abbiamo creato e che ci crea”) cambia continuamente: un adolescente si indigna se lo si tratta come un bambino ma accetta costrizioni di fronte alle quali un bimbo si dispererebbe; un adulto rivendica la propria indipendenza e passa ore bloccato in coda in un’auto senza lamentarsi.
Come ci siamo immaginati? Come ci hanno immaginato e che ne è della nostra fantasia? Continuiamo a immaginarci? C’è una sorta di madre interna che ci aiuta a trasformare i sogni in progetti? O possiamo solo essere realisti e sognare regressivamente, perderci in una fantasia infantile e consolatoria per poi “tornare alla dura realtà”?
Se è vero, come ha scritto Binswanger, che: “dobbiamo sempre distinguere fra il lasciarsi trasportare dai desideri, dalle idee, dagli ideali, e il faticoso e lento salire lungo i pioli della scala, lungo la quale questi desideri, queste idee, questi ideali di vita, artistici, filosofici, scientifici, si differenziano e vengono tradotti in parole e azione.”, se è vera questa via obbligata dal sogno alla realtà, quello che dovremmo chiederci è: in questo passaggio dall’indistinto, libero e liquido, del sogno, al concreto, differenziato e fin troppo solido della realtà, cosa mi accompagna? Cosa mi lascio alle spalle?
Credo che un simile compito non possa essere affidato ad un solo archetipo. Dice bene il Professor Romano quando afferma che: “Le figure costrette a farsi carico dell’intera macchina psichica finiscono coll’irrigidirsi, con l’impettirsi e con l’assomigliare pericolosamente a chi recita una parte in una commedia.”.
Non può quindi essere solo la Madre ad indicare la strada né solo il Bambino a percorrerla.
Cosa indica l’immaginazione? Verso cosa punta, più o meno saggiamente, il dito di chi vuole dare una direzione? Perché il contenimento abbia un senso deve avere qualcosa verso cui sfociare.
Il rischio è, altrimenti, quello che io credo stiamo tutti correndo: una società che si comporta come un surrogato di Grande Madre che sfama ogni bisogno offrendo una gran quantità di cose che soddisfano ogni desiderio, e dei cittadini/bambini/consumatori che passano da un bisogno all’altro cercando contenimenti sempre diversi ma sempre confortevoli, poco impegnativi, regressivi.
L’immaginazione è fantasia feconda perché tende verso qualcosa ed ha in sé un progetto. La figura del viandante, del Wanderer del romanticismo tedesco e del Flaneur di Baudelaire, racchiude in sé il bambino, il Puer Aeternus, che se ne va per il mondo, che si allontana dalla madre e va verso… Forse non sa bene verso cosa sta andando e corre un rischio regressivo: quello di diventare una sorta di fannullone che spizzica informazioni e esperienze qua e là senza concludere niente. O forse, in questo vagare, in questo non fermarsi e non soggiacere all’incanto di nessun luogo e di nessuna atmosfera, ha la possibilità di poter continuare ad immaginare e di trasformare, strada facendo, il proprio modo di “prendersi”, raccontarsi, vivere.
E’ un altro archetipo, che sgorga dal bambino e che va verso il Senex, il vecchio saggio vissuto e, forse, un po’ irrigidito. E’ ciò a cui ha portato questa amplificazione su fantasia e immaginazione. Ciò che echeggia, secondo me, tra queste righe di M.Fermine: “Ci sono due specie di persone. Ci sono quelli che vivono, giocano e muoiono. E ci sono quelli che si tengono in equilibrio sul crinale della vita. Ci sono gli attori. E ci sono i funamboli.”.
P.S.: Spero di non aver risposto troppo alla domanda iniziale!